LA MEMORIA INDECOROSA DI UN PARTIGIANO

Rimossa la targa del partigiano Orso dal bosco dei Partigiani
Prima di diventare un pezzo di cemento scrostato questo muro è stato un luogo di memoria. Qui, lo scorso ottobre, era stata posta una targa dedicata a Lorenzo “Orso” Orsetti, realizzata per l’occasione da un artista locale. Orso era un ragazzo di 33 anni di Firenze. Nel 2017 era partito per la Siria, animato dal desiderio di vedere con i suoi occhi la rivoluzione messa in atto dal popolo curdo. Tale esperimento di libertà era, ed è tutt’ora, minacciato sia dal governo turco che dal fondamentalismo islamico dell’ISIS.
Quella curda è una rivoluzione ispirata ai valori del femminismo, dell’ecologia e di una democrazia diretta e senza stato: valori profondamente affini a quello che era il sentire anarchico di Lorenzo. Arrivato in Siria Orso aveva trovato un luogo prezioso e da difendere. Lorenzo non amava la violenza e il militarismo ma aveva deciso che quella era un’esperienza per cui valeva la pena combattere e anche morire. Per queste ragioni Orso ha preso parte alle milizie di volontari curdi, fino al marzo del 2019 quando è caduto in combattimento, ucciso dai tagliagole dell’ISIS.
Prima di quella data, nel febbraio, aveva ricevuto con grande orgoglio la tessera onoraria dell’ANPI di Firenze. Quella sezione dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia aveva riconosciuto nell’attività combattente di Orso qualcosa di molto affine ai valori dei partigiani che in Italia avevano lottato contro la barbarie nazifascista. Numerose sezioni dell’ANPI hanno dato vita a iniziative analoghe in ricordo di questo partigiano dei nostri tempi.
Qui ad Asti si è deciso di omaggiare la sua memoria e, per farlo, è stata posta una targa. Proprio qui sui muri dell’anfiteatro al centro del parco: non solo per riannodare simbolicamente la memoria dei combattenti per la libertà di ieri e di oggi, ma anche per continuare a vivere questo luogo della città. Uno spazio, quello del Bosco dei Partigiani, che in questi anni abbiamo attraversato con numerose iniziative (teatro, poesia, musica, mostre, dibattiti, presentazioni, giornate di pulizia), convinti del fatto che il problema del parco non siano due scritte sul muro, ma la mancata presa in carico di questi luoghi da parte di una collettività consapevole e responsabile. Un parco per essere sicuro non ha bisogno di un posticcio decoro. Un parco per essere vivibile deve essere attraversato da una comunità che se ne prende cura. Tutto questo può avvenire anche attraverso momenti di condivisione della memoria come è stato quello di Orso.
La targa era stata inaugurata alla presenza del padre di Lorenzo, in un evento partecipatissimo e molto sentito. A inizio mese qualcuno ha rimosso la targa e il murales di sfondo. Non conosciamo gli autori di tale atto ma ne conosciamo i mandanti e la grottesca logica che li anima e che vogliamo qui denunciare.
In questo parco intere zone sono completamente inagibili per via della vegetazione, della rottura delle staccionate, dei calcinacci che si staccano dalle antiche mura, dell’incuria totale in cui versa. A fronte di tutto questo l’intervento prioritario del Comune è stato quello di rimuovere la targa di una persona tesserata ANPI e uccisa dall’ISIS. Evidentemente il Comune ritiene che le iniziative concrete per vivere questo spazio in modo collettivo e responsabile siano indecorose. E che indecorosa sia anche la memoria di un antifascista caduto per la libertà. Se pensano in questo modo di cancellare la memoria dei partigiani di oggi, si sbagliano di grosso. Il posto di Orso è qui, in questo parco che noi continueremo ad attraversare a testa alta perché vogliamo che questo luogo sia uno spazio di incontro, di memoria resistente, di cultura, di progettualità condivisa e dal basso.
ASSEMBLEA ANTIFASCISTA ASTI

SOLIDARIETÀ SENZA CONFINI

Da circa 40 giorni una decina di ragazzi di nazionalità pakistana sosta davanti alla Questura di Asti, nell’ormai vano tentativo di formulare la propria richiesta di asilo politico e di ottenere accoglienza presso le strutture adibite sul territorio.
Sono tutti reduci dalla rotta balcanica: un viaggio infernale della durata di mesi, dove hanno più volte messo a repentaglio la propria vita nell’attraversamento di quelle linee immaginarie che gli Stati tracciano sul territorio e che diventano qualcosa di reale solo attraverso la violenza poliziesca.
Non possiedono nulla se non quel poco che sono riusciti a portarsi dietro e quello che riescono a recuperare dalla carità cittadina e dalla solidarietà di quelli che si sono avvicinati a loro. All’alba si presentano all’ingresso e ricevono sempre la stessa risposta: “non ci sono posti nei centri di accoglienza, non possiamo farvi entrare”. I ragazzi aspettano pazienti e, passato mezzogiorno, si disperdono per la città, andando a dormire la notte nei parchi cittadini o temporaneamente da qualche connazionale solidale. Queste persone sono arrivate qua nella speranza di ottenere migliori condizioni di vita e pensando di essersi lasciati alle spalle il peggio, e ora si trovano di fronte al muro di una burocrazia insensata che gli impedisce di esprimere quello che è un loro elementare diritto: formulare la richiesta di asilo. Un diritto che è completamente slegato dall’effettiva disponibilità di posti sul territorio.
Di fronte a questa situazione come Laboratorio Autogestito La Miccia, insieme a una serie di solidali accorsi spontaneamente, ci siamo mobilitati. Innanzitutto per parlare con queste persone, capire la loro situazione, portare generi di prima necessità e metterli in contatto con gli avvocati astigiani e dell’Associazione per gli Studi giuridici per l’immigrazione.
Lasciamo a questi ultimi i tecnicismi sulle disposizioni di legge e prendiamo pubblicamente parola per denunciare questa intollerabile situazione di cui sono responsabili le stesse autorità cittadine che cercano di lavarsene le mani. In questi anni, come collettivo, ci siamo più volte mobilitati contro il sistema assassino delle frontiere, che ogni anno miete vittime tanto all’esterno quanto all’interno del nostro Paese. Tanto in un Mar Mediterraneo trasformatosi in enorme fossa comune per migliaia di migranti, quanto sul nostro territorio dove troppo frequenti sono i casi di persone morte in circostanze poco chiare all’interno dei Centri di Permanenza per il rimpatrio: veri e propri campi di concentramento della cosiddetta democrazia dove si è rinchiusi non per quello che si fa ma per quello che si è. La lotta perchè questi ragazzi possano ottenere almeno quanto spetta loro di diritto, è un piccolo pezzo di una battaglia ben più grande: in solidarietà con tutte le persone in viaggio e contro i meccanismi di emarginazione e oppressione che queste persone subiscono quotidianamente. Lottiamo per un mondo senza più stati, nè frontiere, nè galere, dove nessuno debba più essere considerato clandestino o irregolare, dove nessuno debba più mettere a repentaglio la propria vita nel tentativo di migliorare la propria esistenza, per sé e per i propri cari. Nel fare questo, non ci voltiamo dall’altra parte e continueremo a sostenere le rivendicazioni di queste persone, a portargli la nostra solidarietà attiva, fino a quando non verrà data loro adeguata risposta.
LABORATORIO AUTOGESTITO LA MICCIA

Quale memoria?

Il calendario di Stato è pieno di commemorazioni. Giorni in cui veniamo sollecitati per decreto regio a sforzare una memoria sempre più artificiale su avvenimenti a noi talvolta sconosciuti. I nostri occhi devono chiudersi su quanto mortifica quotidianamente le nostre vite, per spalancarsi soltanto su ciò che un tempo travolse le esistenze di altri.

Manifestazioni, funzioni, celebrazioni, ci fanno ripercorrere a distanza di sicurezza quanto ci è stato insegnato sugli orrori del passato per farci sentire al riparo da ciò che sperimentiamo sulla nostra pelle nel presente.

Ogni 27 gennaio veniamo invitati a commemorare le vittime dell’Olocausto, i milioni di ebrei e non ebrei soppressi nei lager nazisti. Affinché simili tragedie non debbano ripetersi mai più, le autorità elargiscono onoreficenze ai sopravvissuti o ai loro parenti, inaugurano lapidi a perenne monito, finanziano Treni della Memoria che conducono i ragazzi a visitare il lager di Auschwitz. Tutte nobili iniziative. Tuttavia, prima di arrivare a Cracovia, tutta questa memoria farà tappa anche alla Risiera di San Sabba (Trieste) — campo di sterminio dotato di forno crematorio —, a Gonars (Udine), a Renicci di Anghiari (Arezzo), a Chiesanuova (Padova), a Monito (Treviso), a Fraschette di Alatri (Frosinone), a Colfiorito (Foligno), a Cairo Montenotte (Savona) e in tutti i paesi dove all’epoca sorsero campi di concentramento italiani?

No, la memoria istituzionale è selettiva. Ricorda volentieri gli orrori perpetrati dallo Stato tedesco, ma solo per far meglio dimenticare quelli commessi dallo Stato italiano.

Sottolineando la responsabilità degli altri si cerca di legittimare e rendere plausibile una propria irresponsabilità in quei fatti lontani, laddove dovrebbe essere noto che il governo fascista italiano fu il principale alleato del governo nazista tedesco nonché, in un certo senso, l’ispiratore.

Ma c’è di peggio. La messa in mostra degli orrori di ieri serve soprattutto a coprire gli orrori di oggi, offuscando l’indissolubile legame che li unisce. La rituale esibizione del Male assoluto nazista è necessaria, va ripetuta di anno in anno, perché serve a rendere più accettabile il Male relativo democratico. Così tutti s’indignano per il clima di paura che regnava all’epoca, ma quanti invocano quel sistema di videosorveglianza moderno che tratta chiunque come un nemico da controllare? Si piangono gli ebrei rinchiusi nei lager di ieri con l’accusa di aver infestato l’Europa, mentre si tace sugli immigrati clandestini che vengono rinchiusi sotto i nostri occhi nei lager di oggi (i Centri di permanenza per il rimpatrio) con l’accusa di infestare l’Europa.

Si rimane sgomenti di fronte all’ideologia nazi-fascista che faceva degli ebrei dei parassiti da eliminare, una malattia contagiosa da estirpare ma si trovano del tutto accettabili gli insulti e le minacce indirizzate sistematicamente alla comunità rom. Un disprezzo che spesso raggiunge l’invocazione di una vera e propria pulizia etnica.

Ci si interroga su come fu possibile discriminare, perseguitatare e ghettizzare una larga fetta di popolazione ma si reputa del tutto normale invocare lo sgombero dei campi rom, senza spendere un euro per trovare soluzioni di vita dignitose, senza prevedere l’assegnazione di case, senza fare letteralmente nulla, se non respingere in un isolamento ancora più degradante chi, come tutti, vorrebbe solo trovare una casa e una vita migliore.

Furono 500.000, forse più, i rom, sinti e camminanti sterminati nei lager. Altre centinaia di migliaia furono perseguitati incarcerati, deportati, le famiglie sciolte, le comunità disperse, allo scopo dichiarato di sradicare il Wandertrieb, l’“istinto nomade”, identificato dall’eugenetica paranoide fascista con il disordine, la trasgressione, la commistione del sangue e la degradazione del costume. Eppure la loro è una memoria drammaticamente taciuta. E la ragione è semplice: studiare le dinamiche che resero possibile il loro sterminio è qualcosa di troppo scomodo perchè troppo drammaticamente attuale. Oggi come allora la guerra fra i poveri si alimenta degli stessi stereotipi, dello stesso odio per chi è diverso, per chi sta peggio. E questo lo vediamo con estrema chiarezza anche qui ad Asti con quanto sta succedendo rispetto al campo di via Guerra.

Il primo dell’anno Ariudin, un ragazzo di 13 anni, è morto in un tragico incidente all’interno del campo. La stampa locale, all’indomani dell’accadduto, ha cinicamente titolato: “Asti, al pronto soccorso si contano i danni della disperazione dei parenti del 13enne ucciso dal petardo”. L’articolo ha scatenato sui social una bufera di insulti razzisti e di indignazione, non certo per la drammatica scomparsa del ragazzo ma per alcuni – limitatissimi – danni avvenuti all’ospedale. Insomma l’interruttore di una porta automatica e una barella valgono di più della vita di una persona.

Il terribile avvenimento ha dato un’accellerata alle procedure di sgombero del campo di via Guerra e recentemente sono uscite le proposte della giunta comunale, in accordo con il questore: fare da intermediari con mediatori immobiliari per far acquistare alle famiglie del campo una casa e individuare un’area – lontana da tutto e da tutti – dove piazzare tende per le famiglie non in grado di acquistare un immobile.
Il tutto senza impiegare alcuna risorsa finanziaria nè mettere a disposizione edilizia popolare.

Come se le famiglie del campo di via Guerra volessero a tutti i costi rimanere lì e non se ne fossero andate prima unicamente perchè sprovviste dei saggi consigli dell’amministrazione, non certo perchè impossibilitate all’acquisto di una casa. Con tali premesse l’ipotesi della costituzione di un nuovo campo “temporaneo” appare non come un’ipotesi ma come una certezza assoluta che farà del nuovo sito, non ancora individuato, solamente un altro ghetto, ancora più isolato.

Quella del Comune non è che l’ennesima operazione demagogica per guadagnare un po’ di consensi a destra, sulle spalle di famiglie che hanno i nostri stessi bisogni e che subiscono in forma estrema la nostra stessa precarietà. E il tutto in una città piena di case sfitte e immobili vuoti abbandonati al degrado e alla speculazione edilizia.

Quello del Comune è un gioco facile che affonda le proprie radici su di una ideologia razzista che da sempre individua nei rom, sinti e camminanti degli “asociali” e dei “criminali per natura”, da isolare e ghettizzare.

Da queste discriminazioni e ghettizzazioni ai pogrom il passo è molto breve. E’ quanto successe a Torino nel dicembre del 2011 quando un gruppo di ultras e neofascisti portò a termine un attacco incendiario al campo nomadi della Continassa, nel quartiere popolare delle Vallette. La storia avrebbe dell’incredibile se non si cementasse su secoli di antiziganismo: una ragazza racconta un bugia, uno stupro mai avvenuto, punta il dito su due rom, i rom che vivono in baracche fatiscenti tra le rovine della cascina della Continassa. Il campo viene dato alle fiamme.
Oggi, giorno della Memoria, non dovremmo limitarci a guardare in modo distaccato agli orrori del passato. Oggi dovremmo ragionare sul significato della storia, sulla sua utilità e se essa debba essere una mera attività consolatoria o uno strumento efficace per saper leggere anche il presente e agire di conseguenza. Se vogliamo che la memoria non sia un esercizio vano dobbiamo capire una volta per tutte che gli unici veri parassiti sono i politicanti di ogni colore e di ogni tempo, che lucrano sulle vite delle persone per metterle le une contro le altre, per allargare il consenso verso leggi sempre più liberticide e autoritarie.
L’unica vera malattia da estirpare è il nazionalismo, un cancro che avvelena la società nascondendoci i nostri veri nemici: i padroni che ci sfruttano, le istituzioni criminali e incompetenti che ci governano.

I nostri nemici non abitano nei campi nomadi ma siedono sulle poltrone del Comune, della Regione, del Parlamento, dei Consigli di amministrazione. Sono loro che ci sfruttano, che ci sfrattano, che ci riducono alla fame, che tagliano su tutti i servizi fondamentali e poi ci dicono che “siamo tutti italiani” e che la colpa è degli stranieri, degli zingari. Oggi più che mai è necessario non cadere in questa trappola. Non bisogna lasciare nessuno spazio a chi specula sulle nostre vite e su quelle di chi sta peggio di noi. Se le loro armi sono l’ignoranza e l’odio, le nostre sono la solidarietà, l’auto-organizzazione, lo studio, l’azione diretta. Contro ogni nazionalismo. Contro ogni razzismo. Perchè ogni bandiera è imbrattata di sangue, ogni inno nazionale copre urla e lamenti e fino a quando non si deciderà di farla finita con i governi, gli orrori della storia non faranno che ripetersi.

Riferimenti:
A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari, A rivista anarchica (DVD)
L. Guenter, La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, 2002