Cosa c’entrano gli anarchici con la cucina cinese in Europa?

Il movimento anarchico cinese nasce all’inizio del Novecento, nel periodo coincidente con gli ultimi anni della dinastia Qing (1907-1911), quando furono pubblicate le prime riviste anarchiche: Tian yi (Giustizia Naturale) a Tokio, e Xin shi (Nuovo Secolo) a Parigi.
I fondatori del movimento anarchico cinese venivano per lo più dalla Lega Rivoluzionaria (Tongmen hui) di Sun Yat-Sen che, nel 1905, promuoveva una rivoluzione repubblicana contro la monarchia costituzionale dei Manchu.

Nucleo teorico fondamentale di questi anarchici è lotta contro lo Stato in campo politico, contro il capitalismo in quello economico e contro la religione in quello morale.
La società vera e propria è quella che permette liberi scambi tra gli individui, il mutuo soccorso, la felicità comune per tutti, il godimento di ogni cosa e la liberazione dal controllo imposto dalla forza di pochi. Ecco ciò che l’anarchismo intende realizzare. Tuttavia, i governi di oggi sono organizzati da pochi, che a loro volta emanano leggi che sono vantaggiose per quei pochi […]. Di conseguenza, lo Stato è il distruttore della società giusta. Insomma, quel che vogliamo è la distruzione del distruttore della società giusta” (Li Shizeng).

Anche il Confucianesimo non passa indenne sotto l’analisi di questi militanti, che lo attaccano in modo indiretto rimproverando ai seguaci di Confucio di averlo considerato santo e di aver così perpetuato un’adozione acritica delle sue parole, senza passarle al vaglio delle mutate condizioni storiche.
Alla venerazione delle tradizioni, i libertari cinesi oppongono la necessità di pensare a una società guidata dalla scienza, dai valori del comunismo non statale e del femminismo. Li Shizeng si augurava specificatamente una rivoluzione femminile. Egli era convinto che le donne avrebbero potuto raggiungere la libertà (ziyou), l’indipendenza (zili), il libero matrimonio o convivenza (peihe), se esse avessero raggiunto l’eguaglianza economica. Shizeng faceva risalire le forme di ineguaglianza economica di allora – da cui la servitù nel matrimonio – alle leggi e, in ultima analisi, al Governo. Pertanto, “una rivoluzione che rovesci il Governo è requisito importante per una rivoluzione femminile” che possa infine portare alla “libertà e autosufficienza (ziyou zide) delle donne.

Nel 1902 arrivarono a Parigi venti studenti, alcuni inviati dal Governo e altri per scelta personale. Fra essi vi erano Li Shizeng e Chang Qingqiang, entrambi appartenenti a importanti famiglie. Li Shizeng era figlio di un potente funzionario statale, e una volta a Parigi si diede allo studio della biologia e alla propaganda anarchica. Chang Qingqiang era figlio di un facoltoso uomo d’affari, e questo lo metteva in grado di finanziare generosamente la causa rivoluzionaria.

Chang infatti fondò la Dongyong Company, una società commerciale che, fra il 1902 e il 1906, attirò a Parigi diversi giovani compaesani di Chang, con l’offerta di un lavoro che consentisse loro di proseguire gli studi. Molti di loro, fra cui Chu Minyi, divennero attivisti nel movimento anarchico. L’attività imprenditoriale cinese portò all’apertura di una casa da tè e, nel 1906, ad una stamperia che pubblicò, sebbene per poco, una rivista illustrata. Inoltre, venne fondata l’associazione Far Eastern Biological Study Association, con un laboratorio accanto alla stamperia che arrivò a selezionare e produrre un nuovo tipo di fagiolo e a dare lavoro a trenta studenti.

Quando non lavoravano, i ragazzi dovevano fare pratica di cinese e francese e studiare materie scientifiche. Il fumo, il bere e il gioco d’azzardo erano assolutamente proibiti. Alcuni, come Li Shizeng, avevano anche una forte attenzione per la questione animale ed erano vegetariani. Tale pratica rimarrà uno dei punti fondamentali della “Società della coscienza”, roccaforte dell’anarchismo in Cina, fondata a Canton nel 1912 da Shi Fu.

L’idea di affiancare studio e lavoro nasceva da un’esigenza pratica per i giovani studenti, i quali dovevano riuscire a mantenersi agli studi, ma anche da motivazioni di carattere teorico, derivanti dalla necessità di dedicarsi tanto ai lavori manuali che a quelli intellettuali.
È proprio all’interno di questa comunità che nasce uno dei primi nuclei del movimento anarchico cinese. Organo di questo gruppo era il settimanale: Xin shiqi (Il Nuovo Secolo) che, dal 1907 al 1910, propugnò la causa rivoluzionaria e anarchica presso gli studenti e gli intellettuali cinesi di tutto il mondo, arrivando nel tempo a far penetrare il suo messaggio anche dentro i confini della madrepatria. Più grande d’età e più dotato di esperienza, Wu Qihui divenne la figura più di spicco del gruppo anarchico parigino, mentre Li Shizeng ne fu piuttosto lo “spirito guida”.

Il gruppo aderì all’Anarco-Comunismo e i riferimenti principali erano Michail Bakunin, Petr Kropotkin, Elisée Reclus, Errico Malatesta e Jean Grave, autori che saranno in parte tradotti dallo stesso Shizeng.

Dopo la Rivoluzione del 1911, che porta all’abdicazione dell’imperatore Pu Yi, la maggior parte dei membri del gruppo anarchico di Parigi è nuovamente in Cina. Qui Wu Qinhui, Li Shizeng, Chang Qi, e Wang Qingwei fondano nel 1912 la Qinte hui (Società per il Progresso Morale). Parallelamente in Francia, sempre per opera di libertari, nasce la Liu faqianxue hui (Società per lo Studio Frugale in Francia).
Scopo di queste società è la promozione di una vita semplice e a basso costo, che consentisse agli studenti di trasferirsi in Europa e viverci il tempo necessario per completare la loro istruzione. Non c’era un vero e proprio obbligo per loro di lavorare, nel caso essi avessero già fondi sufficienti al mantenimento.
La società forniva loro istruzioni e notizie sulla vita e lo studio all’estero e rudimenti della lingua, attraverso dei corsi preparatori che si tenevano a Pechino.

Coerentemente con l’ispirazione anarchica, anche la scuola avente sede in Cina non aveva funzionari, e non c’erano tasse di iscrizione: le spese vive venivano sostenute con l’apporto solidale di tutti i membri.
Gli studenti dovevano impegnarsi per un percorso di studi all’estero di almeno tre anni, e le materie di studio venivano scelte in base alla durata del percorso. Moltissimi dei giovani emigrati in Francia trovarono impiego in quelli che furono a tutti gli effetti le prime attività di ristorazione cinese presenti sul territorio europeo.

Le necessità pratiche di sussistenza di questi anarchici cinesi, si trasformarono così in una possibilità di contatto tra diverse culture alimentari. Tale fortunato incontro avrà negli anni a venire l’enorme successo che tutti conosciamo.

La figura più importante di questa storia è proprio Li Shizeng che, nel 1908, aprì la Usine de la Caseo Sojaine: una delle prime pionieristiche aziende di produzione e di distribuzione di derivati della soia (tofu, latte, formaggi e affettati vegetali) in Europa.

Sempre Shizeng fonderà nel 1914 il primo ristorante cinese di Parigi.

Fonti:

Anna Piana, Il movimento anarchico nella Cina Pre-repubblicana e Repubblicana, tesi di laurea magistrale in Lingue e culture dell’Asia Orientale, Università Ca’ Foscari di Venezia, relatore Guido Samar/ani, a.a. 2012-2013 (http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/3288/812771-1149820.pdf?sequence=2, consultato il 10/04/2020).

Jan Jacques Gandini, Anarchici in Cina, in A rivista anarchica, anno 23 n. 197, febbraio 1993 (http://www.arivista.org/?nr=197&pag=197_12.htm, consultato il 10/04/2020)

Marco Novarino, Le origini dell’anarchismo in Cina e i rapporti con il movimento libertario internazionale (1901-1911), in Rivista storica del socialismo, anno I, n. 2, 2016 (https://iris.unito.it/retrieve/handle/2318/1618760/282337/Riv.%20Storica%20Socialismo%20Novarino.pdf, consultato il 10/04/2020).

https://www.soyinfocenter.com/pdf/144/LiYy.pdf, consultato il 10/04/2020.

https://www.anarcopedia.org/index.php/Li_Shizeng, consultato il 10/04/2020.

SPAGHETTI DELL’ANARCHICO LI SHIZENG (Spaghetti saltati con verdure e tofu)

INGREDIENTI per 2/3 persone:

Spaghetti di riso o soia (1 nido per persona)
1 carota
2 gambi di sedano
Zenzero fresco a piacere
Cipolla a piacere (o porro)
2 foglie di cavolo verza
1 panetto di tofu
Salsa di soia
Olio di semi

Per prima cosa stai attento e ricorda: Li Shizeng giudicherà la tua ricetta!

Lavare e tagliare le verdure (quelle indicate sono la base, è possibile aggiungere tutte le verdure di stagione a piacimento). Affettare il tofu.

Nel frattempo ammollare gli spaghetti in acqua calda (segui le istruzioni sulla confezione dei tuoi spaghetti).

Ungere bene il wok con l’olio di semi e aggiungere tofu e verdure (se gradito, è possibile aggiungere anche peperoncino). Se non hai un wok, usa la padella più grande che hai, meglio se un po’ profonda. Saltare le verdure e, se occorre, aggiungere un po’ di acqua: devono rimanere croccanti.

Una volta pronte le verdure, aggiungere gli spaghetti dopo averli scolati. Gli spaghetti sono pronti per essere messi in padella quando è possibile dividere comodamente i nidi: non devono però risultare eccessivamente viscidi. Saltare il tutto aggiungendo salsa di soia a piacere.

Mescolare sul fuoco facendo attenzione a non far attaccare gli spaghetti alla padella per qualche minuto.

Servire caldo e, se necessario, aggiungere ancora salsa di soia.

Chi è LI SHIZENG e cosa diamine c’entrano gli anarchici cinesi con spaghetti alle verdure e tofu?

Li Shizeng fonderà nel 1908 la prima azienda di produzione di tofu in Francia e, sei anni più tardi, il primo ristorante cinese a Parigi. In queste realtà troveranno lavoro le prime comunità di giovani libertari provenienti dalla Cina… leggi l’articolo completo: https://lamicciaasti.noblogs.org/post/2020/04/14/cosa-centrano-gli-anarchici-con-la-cucina-cinese-in-europa/

 

IL SILENZIO DEGLI AGNELLI

Il numero di agnelli uccisi per la pasqua è in diminuzione costante e da dieci anni a questa parte si è praticamente dimezzato, passando da 730.000 nel 2008 a meno di 380.000 animali nel 2018, con un calo del 10% solo nel 2017. (https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/03/29/agnelli-macellati-per-pasqua-i-numeri-diminuiscono-ma-restano-i-maltrattamenti-nei-macelli/4259373/ )
Quest’anno è stimato un ulteriore calo del 35% nel consumo di agnello durante le celebrazioni pasquali a causa delle restrizioni sanitarie imposte dal governo per il controllo dell’epidemia di Covid-19: ristoranti chiusi, grandi pranzi famigliari impossibili da realizzare e difficoltà economiche in aumento. (https://www.wired.it/economia/consumi/2020/04/10/agnelli-pasqua-coronavirus/ )
Senza dubbio tra le cause della continua diminuzione nel consumo di carne di agnello ci sono le campagne di sensibilizzazione animaliste ed antispeciste, che riempiono le città e il web di manifesti ed immagini degli agnelli in vita, che guardano dritti in camera da soffici prati verdi. Vero simbolo di innocenza e tenerezza, che a ben vedere è proprio il motivo per cui il loro sacrificio è legato alla pasqua: l’agnello rappresenta infatti il cristo che si sacrifica per l’umanità, in questa delirante tradizione gastronomico-religiosa. 
Purtroppo però il meccanismo simbolico è ancora in azione: decidendo di non mangiare agnello, di “salvare l’innocente”, spesso si esorcizza il senso di colpa e ci si sente redenti e tranquilli. Eppure tutti gli animali che finiscono nei nostri piatti sono cuccioli. I bovini vengono macellati tra i 10 e i 24 mesi, su una aspettativa di vita di circa 20 anni in natura. I maiali raggiungono il peso per la macellazione tra i 6 e i 12 mesi, quando potrebbero vivere fino a 15 anni, come i cani. Polli e conigli, che in media vivono per almeno 8 anni, trovano la morte tra i due e i tre mesi, o i 40 giorni per i polli da carne a rapido accrescimento (broiler). Unica eccezione, le femmine che prima vengono usate per la riproduzione e la produzione di latte e uova: ovvero mucche, galline e scrofe, che vengono macellate in media ad 1\4 della loro naturale aspettativa di vita. Se fossero umane, avrebbero più o meno vent’anni. Paradossalmente la loro sofferenza è maggiore rispetto agli animali macellati in più giovane età. (https://www.essereanimali.org/2017/08/mangiamo-cuccioli/ )
Con questa riflessione non intendiamo certo sminuire l’inutile e terribile sofferenza degli agnelli, documentata come ogni anno in una video indagine dall’associazione Essere Animali, che si occupa di inchieste e sensibilizzazione sulla condizione animale negli allevamenti e nei macelli. (https://www.essereanimali.org/2018/03/filmato-violenta-macellazione-agnelli-pasqua/ )
Né ci interessa ergerci a giudici e colpevolizzare quelle che per molti sono semplicemente abitudini alimentari, espressione di un problema sistemico della nostra civiltà, che si basa su un privilegio specista.
Intendiamo però lanciare come sempre semi di riflessione, come granelli di polvere da sparo pronti a innescare il pensiero critico, il ragionamento, il cambiamento. Nella speranza che possano propagarsi rizomaticamente, come auspicato da Amedeo Bertolo (https://lamicciaasti.noblogs.org/post/2020/04/02/consigli-di-lettura-1/ ),
sgretolando a poco a poco il calcestruzzo di un sistema che si basa sull’oppressione. Di specie, così come su quella di genere, razza e classe.

#Iorestoacasa. Ma chi una casa non ce l’ha?

Da molti giorni ormai, a tutte le ore in televisione, nelle radio, sui social si susseguono raccomandazioni, appelli, regole da mantenere e hashtag che invitano a restare a casa per limitare e bloccare il COVID19.

Bene, ma per chi una casa non ce l’ha?

In Italia ci sono oltre 55 mila persone che vivono per strada. Un numero che questa emergenza sanitaria ha reso, anche ad Asti, ancora più visibile. Non più nascosti dalle fronde degli alberi dei parchi ora chiusi al pubblico, gettati in solitudine nelle strade semi-deserte, oggi più che mai, le condizioni di vita di queste persone ci appaiono in tutta la loro drammaticità. I senzatetto sono una importante fetta di popolazione che oltre i quotidiani disagi di una vita difficile, oggi si trovano a fronteggiare a “petto nudo” il virus di inizio millennio, che ha già mietuto centinaia di vittime nel Paese, con il rischio di essere loro stessi degli strumenti di contaminazione. In alcuni comuni le autorità non si stanno interessando dei protocolli per la gestione delle persone in strada: presi dal rispetto dei decreti emanati dal Presidente Conte hanno fatto chiudere centri di accoglienza con la conseguenza dell’interruzione di alcuni servizi igienici quali docce e distribuzione di indumenti e di ambulatori. Un vero paradosso se pensiamo che una delle raccomandazioni principali per difendersi dal contagio è quella di lavarsi spesso le mani. Come fanno a lavarsi spesso le mani con sapone o gel a base alcolica se non hanno un posto dove farlo?

Molte delle realtà associative che si dedicano al miglioramento delle condizioni di vita dei senza fissa dimora, con l’attuazione dei vari Decreti, hanno dovuto modificare i servizi facendo accedere alla mensa poche persone per volta, fornendo pasti da asporto, spesso pasti non caldi, da mangiare fuori dalle strutture. Nella maggior parte delle città  i centri chiudono alle 11:00 dopodiché le persone, con tutte le strutture chiuse, sono costrette a restare per strada.  Ed è qui che scatta la seconda beffa per i senzatetto.

Accusati di non rispettare l’ordinanza del “restate a casa” vengono multati, secondo il DPCM del Presidente Conte, dalle forze dell’ordine. È già accaduto a Milano, Modena, Verona, Siena, Roma e in tante altre città.

Istituzioni e mezzi di informazione ci continuano a chiedere di stare a casa, perché fuori le epidemie si muovono liberamente, fuori c’è il pericolo del contagio; ma proprio in queste situazioni di emergenza è necessario pensare e agire per chi un tetto sopra la testa non ce l’ha. Nelle nostre città decorose e sicure la povertà e il disagio non devono essere visibili, perchè potrebbero disturbare le nostre coscienze. L’architettura ostile – paranoica espressione della crudeltà prodotta dal sistema capitalistico – ha creato una galleria di oggetti architettonici degna di un museo degli orrori. Sotto i ponti appositi spuntoni impediscono di potersi sdraiare. Anche le panchine non possono essere usate per dormirci, ogni angolo appena più protetto è munito di dissuasori. E non siamo all’interno di un film su una civiltà distopica. Siamo qui, adesso, nelle smart city dei sindaci sceriffo.

Stando agli ultimi dati la polizia ha effettuato 4.859.687 controlli, mentre i tamponi eseguiti sono stati 691.461 (http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=83649, https://www.agi.it/cronaca/news/2020-04-06/coronavirus-multe-8218739/). Si discute animosamente sulle casistiche sulle quali fare i tamponi, ma si trova del tutto sensato continuare a sprecare risorse pubbliche per le azioni di controllo e di repressione della polizia. Come se il virus si potesse sconfiggere con le multe e non con i dispositivi medici. Ancora una volta quello di cui abbiamo davvero bisogno non è di apparati securitari ma di sistemi sanitari funzionanti e di case per tutti e tutte. Ad Asti sono tantissimi gli immobili e le case lasciate vuote, abbandonati in attesa di speculazioni edilizie più vantaggiose. Negli anni passati, nella nostra città, numerose sono state le occupazioni a scopo abitativo. Tali azioni ci hanno mostrato con tutta evidenza come gli spazi per risolvere l’emergenza abitativa non manchino. A mancare è, da parte delle istituzioni, la volontà di intervenire efficacemente. E questo perché il profitto di pochi non può essere messo in discussione.

In varie città italiane gruppi di attivisti, spazi occupati e associazioni si sono organizzati per portare la spesa a casa alle persone anziane e per sostenere con azioni solidali chi maggiormente vive le difficoltà ai tempi del coronavirus. Questa pandemia ci restituisce ancora una volta una società divisa in due. Da una parte chi ci controlla, multa, sfratta e sgombera, sprecando in repressione soldi che potrebbero essere utilizzati per la salute. Dall’altra chi si organizza per un tetto sulla testa di tutti e tutte e per non lasciare indietro nessuno. Due modi di percepire il mondo inconciliabili. Due opzioni di fronte alle quali siamo chiamati a scegliere. Tu da che parte stai?

Iorestoacasamanonrestoinsilenzio. La solidarietà è un’arma.

Fonti:

https://www.internazionale.it/reportage/giuseppe-rizzo/2020/03/16/senzatetto-coronavirus

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/16/coronavirus-55mila-senzatetto-non-possono-stare-in-casa-e-le-strutture-faticano-rischio-per-se-e-per-gli-altri-serve-impegno-istituzioni/5737491/

https://m.dagospia.com/architettura-ostile-ecco-alcuni-dettagli-che-non-avevate-mai-notato-nelle-vostre-citta-ma-che-172701

ABORTIRE IN UNO STATO DI EMERGENZA

In questi giorni di quarantena e penitenza, le donne hanno più che mai difficoltà a veder riconosciuto il diritto di autodeterminazione sul proprio corpo, sulla propria autonomia e salute. Per fortuna grazie al lavoro instancabile di associazioni e collettivi femministi, sono usciti in questi giorni molti articoli dettagliati ma crediamo che continuare a parlarne sia importante in modo che la diffusione di queste informazioni arrivi a tutt*.
Cosa significa decidere di interrompere volontariamente una gravidanza ora, in piena emergenza sanitaria, in Italia? Anche in tempi normali è complicato, visto l’enorme numero di obiettori di coscienza pari a poco meno del 70% tra i ginecologi, con picchi tra l’80 e il 95% in Molise,Sicilia, Basilicata. (1)
In piena emergenza, mentre il ministro della salute dichiara che l’interruzione volontaria di gravidanza è una prestazione indifferibile senza però specificare come andrebbe gestita ora, il mondo sanitario reagisce in modo caotico e quasi mai per tutelare la nostra salute e libertà riproduttiva. Molte strutture hanno limitato l’accesso all’IVG, alcune hanno direttamente interrotto il servizio o lo hanno trasferito senza darne comunicazione, i centralini dei reparti e dei consultori restano spesso muti o non danno informazioni precise su come comportarsi, e una donna che si trovi con la necessità di abortire è più che mai sola.
Molti centri inoltre hanno sospeso gli aborti farmacologici rimpiazzandoli con l’intervento classico, che è a tutti gli effetti un intervento chirurgico e richiede anestesia totale e tre giorni di ricovero. Cosa davvero inspiegabile in un momento in cui c’è carenza di posti letto e chi permane negli ospedali espone sé stessa e i propri cari alla possibilità di contagio. In molti altri stati invece la tendenza è opposta, e si procede senza indugi alla soluzione farmacologica in tutti i casi possibili, anche con il ricorso alla tele-medicina e riservando l’ospedalizzazione solo ai rarissimi casi in cui si manifestano controindicazioni. (2)
Cosa fare dunque se ci si trova a dover abortire ora? Auto organizzarci, come sempre. Segnaliamo due risorse importanti che si occupano di mappare obiettori di coscienza e farmacie che rifiutano di vendere la pillola del giorno dopo (e talvolta anche la pillola anticoncezionale), e che in questi giorni hanno contribuito in modo fondamentale al dibattito nazionale sul diritto all’aborto: Obiezione respinta (https://obiezionerespinta.info/ e https://www.facebook.com/obiezionerespinta/ ) e IVG ho abortito e sto benissimo (https://www.facebook.com/IVG-ho-abortito-e-sto-benissimo-701164346922929/). Obiezione respinta ha inoltre creato una rete di solidarietà femminile, un canale telegram su cui segnalare gli ospedali, ambulatori e cliniche che garantiscono il servizio o che lo negano (qui il link https://t.me/aborto_emergenzaCOVID19).
L’iter consigliato è dunque contattare tempestivamente il medico di famiglia (o il ginecologo di fiducia – speriamo non obiettore – o un consultorio aperto), farsi prescrivere l’intervento con urgenza e poi attaccarsi al telefono. Le preziose informazioni raccolte da Obiezione respinta sul canale telegram possono aiutarci a risparmiare tempo prezioso, e possiamo contribuire alle segnalazioni per ampliare la mappa. Ricordiamo anche che i centri per IVG non possono rifiutare l’intervento a pazienti non residenti, e che tutte le farmacie devono vendere liberamente la pillola del giorno dopo, utile per prevenire la gravidanza fino a 72 ore dopo un rapporto non protetto.
Per non farci mancare nulla in Italia, oltre alle solite lungaggini burocratiche, ci sono sempre di mezzo i cattolici, i bigotti e soprattutto chi è in perenne ricerca dei loro voti. Non si sono fatti attendere gli attacchi della destra nei confronti di queste iniziative di auto-organizzazione femminile, mentre il gruppo ProVita e Famiglia ha cavalcato l’onda per lanciare una petizione online, chiedendo di bloccare tutti i servizi IVG a livello nazionale dichiarando: “Durante la pandemia, l’aborto non è un servizio essenziale”.(3)
Sempre dalla parte delle donne, per l’autodeterminazione e la libertà. Sul nostro corpo decidiamo noi, né dio né stato né famiglia!
fonti:

Riflessioni antispeciste sul coronavirus

Un virus salterino

Il SARS-Cov-2, il virus che nell’uomo causa la malattia nota come Covid-19, ha compiuto un salto di specie dal pipistrello all’uomo, forse attraverso un ospite intermedio. La stessa cosa è già successa con la SARS nel 2003, la MERS nel 2012, l’Ebola, la suina H1N1 e l’aviaria H5N1, Zika, HIV… tutte malattie portate da virus dopo un salto di specie. (1)

Non c’è da stupirsi che noi animali umani rappresentiamo un’occasione preziosa per molti tipi di virus e batteri. Siamo grandi animali che vivono in condizioni di sovraffollamento nelle città, ci muoviamo moltissimo in tutto il pianeta costituendo un vettore di infezione globale perfetto anche a partire da un unico focolaio isolato. Quanto alle occasioni, non mancano di certo. Entriamo continuamente in contatto con altri animali ospiti di virus e batteri: allevamenti, macelli e mercati per gli animali cosiddetti “da reddito”, mentre sul fronte distruttivo della deforestazione incrociamo il nostro percorso con un’enorme varietà di animali selvatici invadendo il loro habitat. (2)

Cos’è l’antropocentrismo, e perché un virus dovrebbe aiutarci a metterlo in discussione?

L’antropocentrismo è l’idea che noi esseri umani siamo al centro e al di sopra di tutto il resto dell’esistente, idea che crea una divisione binaria tra l’animale uomo e il resto degli animali. Naturalmente, in questa divisione noi esseri umani ci assegniamo il posto al vertice di questa scala gerarchica, e da questa posizione esercitiamo il nostro privilegio sfruttando gli altri animali, scacciandoli e lasciandoli morire quando vogliamo il loro territorio, e smembrandone a centinaia di miliardi per l’industria di carne e derivati come latticini e uova. L’antropocentrismo ci ha illus* di essere intoccabili e autosufficienti, di poter dominare sull’intero pianeta, ignorando e calpestando l’insieme delle relazioni che ci legano al resto della biosfera. Tra le altre cose, anche questa epidemia ci dimostra che non è così: il confine tra le specie è permeabile, per i virus così come per le relazioni, la comunicazione, i sentimenti. Se possiamo imparare qualcosa da questo casino, perché rinunciare? Abbiamo un enorme bisogno di rimettere in discussione il ruolo che la nostra specie si è illusa di avere, e di cambiare il modo in cui ci relazioniamo con le altre specie viventi. Questa è l’ennesima buona occasione che ci capita per farlo.

Altrochè laboratori segreti, basta la zootecnia.

La zootecnia, con il suo apparato di produzioni agricole per i mangimi, di allevamento intensivo e di macellazione industriale, è l’unico metodo possibile per produrre cibo di origine animale a sufficienza per soddisfare la richiesta del mercato. Chi sostiene che bisognerebbe passare ad un allevamento estensivo, allo stato brado, “naturale”, sappia che vorrebbe dire un mondo in cui i cibi di origine animale sono appannaggio unicamente di un’elite ricca o così rari da costituire un’eccezione più che una costante nell’alimentazione umana. (3) La coltivazione di mangime impiega enormi risorse idriche, causa deforestazione sulla terra e soffoca gli oceani con l’ipertrofia delle alghe causata dall’immissione nei corsi d’acqua di concimi azotati. (4) Tutto questo per permettere all’industria degli allevamenti di compiere orrori infiniti sulla pelle di 150 miliardi di animali ogni anno: ammassati in luoghi sporchi, malati e feriti, vengono imbottiti di antibiotici e antiparassitari per restare vivi abbastanza a lungo da raggiungere un peso profittevole sul mercato. Queste condizioni sono lo scenario perfetto che favorisce lo sviluppo di nuovi patogeni. Batteri resistenti agli antibiotici, che uccidono già 700.000 persone ogni anno nel mondo e che secondo le stime diventeranno la prima causa di morte nel 2050 con 10 milioni di vittime all’anno (insomma, non dovremo aspettare a lungo per la prossima emergenza sanitaria che prolunghi all’infinito questo stato di eccezione) (5). E virus, che hanno modo di replicarsi in numero enorme. Questo significa che statisticamente, prima o poi, qualcuno di questi riesce a mutare per compiere il famoso salto di specie verso l’uomo – che è a continuo contatto con gli animali detenuti in cattività.

L’enorme portata della sofferenza e dello sfruttamento animale riesce a indurre un cambiamento di prospettiva solo in poche persone, e probabilmente non sarà l’ennesima zoonosi a fare di meglio. Ma non rinunciamo a cogliere questa ulteriore occasione di mettere in dubbio il paradigma specista e antropocentrico della nostra società: non possiamo affrontare alcun discorso di salute pubblica se non ripensiamo al modo in cui trattiamo gli altri animali, e al motivo per cui li trattiamo così. Gli allevamenti sono luoghi di orrore che vanno chiusi, gli altri animali hanno il nostro stesso diritto alla libertà e all’autodeterminazione, e questa potrebbe essere anche l’unico modo di evitare una catastrofe sanitaria e climatica. Cosa ci serve ancora per cambiare?

Nei panni dell’Altro.

Da alcune settimane stiamo sperimentando una quotidianità diversa, alienante e stressante. Siamo stat* privat* della libertà di movimento che avevamo prima, della possibilità di agire il nostro tempo liberamente, di incontrarci, di stare all’aria aperta. Che vita è? La più immediata riflessione che possiamo fare ci porta a provare un forte senso di solidarietà con chi vive sempre queste restrizioni: carcerat*, reclus*, istituzionalizzat*, persone disabili e non autosufficienti costrette a vivere in un’abitazione per mancanza di mezzi adeguati. Ma tendiamo lo sguardo oltre, e basta poco per accorgerci che è esattamente la stessa vita a cui sono condannati buona parte dei nostri animali domestici, in verità i più fortunati, quelli che “stanno bene”. Abbiamo da mangiare, da bere, un letto, non dovremmo essere felici così? Chi divide la casa con cani e gatti, pesci di acquario, rettili o uccelli in gabbia, ha un’occasione unica per capire che cosa significa trascorrere l’esistenza tra quattro mura, uscire solo pochi minuti al giorno per una distratta passeggiata, o osservare malinconicamente lo scorrere della vita fuori dalle finestre. Una vita che resta oltre la nostra portata, anche se abbiamo la ciotola piena. Tutti gli animali sono mossi dagli stessi desideri basilari che muovono anche noi, desiderano essere protagonisti delle proprie vite, delle proprie giornate, esprimere le proprie inclinazioni, essere liberi. Facendo uno sforzo per porci nei loro confronti con curiosità e imparare cosa significa essere vivo per un gatto o un cane, poniamo le basi per un’esperienza arricchente e di reciproco rispetto. Non sarebbe male se da questa esperienza potessimo arrivare a rivoluzionare il nostro rapporto con gli altri animali anche nelle nostre relazioni affettive domestiche, smettendo di pensare agli animali domestici come animali “da compagnia”, che servono per darci affetto e attenzioni in cambio di cibo e coccole, e iniziando a vederli come sono realmente: individui unici e compagni animali con cui costruire un rapporto di reciprocità.

Difficoltà nei rifugi.

Questa epidemia e le misure di sicurezza sanitarie che sono state attuate stanno mettendo in grave difficoltà i rifugi per animali liberati, i canili e i gattili. Le adozioni sono ferme, gli eventi di autofinanziamento anche, ma le esigenze degli animali ospitati non cambiano. Cibo e spese veterinarie vanno pagate. Chi lavora in queste strutture sta continuando, al pari di altre categorie, ad esporre se stess* e l* propr* car* al rischio di contagio per assistere gli animali. Le donazioni di cibo, coperte, antiparassitari e anche di denaro, quando si può, sono sempre benvenute e necessarie per non lasciare indietro quelli che sono sempre, e ancora a lungo saranno, gli ultimi degli ultimi.

Contro ogni dominio, ogni gerarchia, per una solidarietà universale e senza confine!

Note:

(1) https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/dalla-peste-coronavirus-come-pandemie-hanno-cambiato-storia-dell-uomo/d71a9986-6dfd-11ea-9b88-27b94f5268fe-va.shtml

(2) https://www.vegolosi.it/news/qual-e-il-collegamento-fra-il-coronavirus-e-gli-allevamenti-intensivi/

(3) https://www.onegreenplanet.org/news/chart-shows-worlds-land-used/ Nel mondo il 77% percento delle terre agricole sono destinati a pascolo e coltivazione di mangimi, producendo solo il 17% delle calorie e il 33% delle proteine dell’intera alimentazione umana. Nell’unione europea, il 70% della terra agricola è usata per l’alimentazione animale. Eppure solo il 9% della carne bovina e il 30% della carne ovina al mondo è prodotta da pascolo. http://www.fao.org/3/X5303E/x5303e05.htm#chapter%202:%20livestock%20grazing%20systems%20&%20the%20environment Evidentemente è impossibile mantenere l’attuale produzione di carne, latte e uova con il pascolo, per non contare che proprio lo sfruttamento eccessivo del pascolo è una delle principali cause di desertificazione. http://www.ciesin.columbia.edu/docs/002-186/002-186.html

(4) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2367646/

(5) https://ilfattoalimentare.it/resistenza-agli-antibiotici.html