Domenica 16 Maggio ore 16 in Piazza Statuto – Asti.
Terzo incontro di lotta contro le prigioni: materiale informativo, performance e interventi sulla quotidianità del carcere.
STRETTI TRA 4 MURA
In carcere? Guarda che quelli stanno benone! Lo Stato ti mantiene e non devi lavorare, stai a letto tutto il giorno a guardare la tv! E poi tanto dopo poco tempo escono anche gli assassini.
Quante volte parlando del carcere sentiamo questi discorsi? Abbiamo sempre considerato la carcerazione qualcosa di lontano dalle nostre vite ma in quest’anno di pandemia ci siamo resi conto che stare sul divano a guardare la tv tutto il giorno non è un gran piacere e che le restrizioni alla propria libertà di movimento sono dopo poco tempo insostenibili. Non a caso proprio dall’inizio della pandemia sono notevolmente aumentati i tassi di suicidio e numerose persone hanno riportato sintomi depressivi ed elevati livelli di stress e ansia.
Oggi, possiamo quindi cercare di comprendere meglio chi passa mesi, anni e decenni all’interno delle 4 mura della cella.
Ogni giorno subiscono i rumori assordanti dei blindi che sbattono, delle chiavi che sferragliano e delle urla incessanti. Ogni giorno consumano pasti che costano allo Stato non più di 4 euro al giorno per detenuto e in alternativa possono cercare di acquistare qualcosa con costi decisamente superiori a quelli che troviamo in un qualsiasi supermercato. Ogni giorno devono respirare la stessa aria stantia e umida che si mescola all’odore del sudore, del caffè e dei diversi piatti tipici di ogni popolazione presente.
Ogni giorno la luce al neon peggiora la vista e tutto ciò che puoi osservare intorno sono sbarre ed espressioni serie. Ogni giorno sono privati di contatto fisico ad eccezione delle perquisizioni fisiche che spogliano la persona anche del più piccolo spazio intimo e personale. Ogni giorno posseggono solo un’ora all’esterno delle sezioni, sempre se il sovraffollamento e il personale in turno lo rendono possibile, definita ora d’aria.
“Aria: che coraggio chiamarla aria; quattro mura brutte, grigie, fredde, spoglie ed in mezzo un casino di persone che camminano, avanti indietro, avanti indietro, i soliti discorsi, le solite facce e questa tensione, sopita come un gatto, la vedi, la senti, la tocchi, e speri che non si svegli, perché è come un barile di dinamite con un fiammifero sotto, sempre pronto ad esplodere, troppe persone, troppa gente ed allora il pallone, partite fatte a scaricare la tensione su quel povero pallone, partite cariche di rabbia, come se ci si giocasse la libertà”.
Ogni giorno devi cercare di essere il più possibile arrendevole con tutti per evitare pestaggi da parte del personale o degli altri detenuti e per evitare l’isolamento. Perché se ti va bene puoi condividere le tue mura con altre 2,3,4,6 persone, se ti va male puoi finire in una cella con le pareti lisce, senza vetri alle finestre, senza lavandino e sedie, con solo una branda priva di materasso. Questo è ciò che è successo ad un detenuto nel carcere di Asti nel 2017. Per due mesi gli stono stati razionati i pasti come punizione e veniva picchiato ripetutamente, più volte al giorno, fino a procurargli la frattura di una costola e diverse ecchimosi ed infine, prima di riportarlo in sezione gli venne strappato a mani nude il codino per farne un regalo ad un agente penitenziario.
È proprio a causa di queste condizioni disumane che nel solo 2020 ci sono stati 61 suicidi, senza contare i tentativi falliti. Questa è la vera quotidianità del carcere, un’istituzione che ha come unico scopo reale quello di ghettizzare le persone considerate come scomode e diverse: un grande contenitore in cui raccogliere (e rimuovere) problematiche sociali che altrove non trovano adeguate risposte.
«Le prigioni italiane, così come avviene in tutta Europa, sono popolate non tanto di grandi criminali ritenuti responsabili di gravi reati, ma piuttosto di fasce estremamente marginali della popolazione per cui spesso devianza e criminalità (prevalentemente micro) rappresentano un’espressione di problematiche sociali che meriterebbero risposte altre. […]. Il profilo sociale di questi detenuti ci descrive persone perlopiù giovani o giovanissime con un basso livello di istruzione, che non hanno mai avuto un’occupazione lavorativa stabile e regolare e che spesso risultano privi di un’adeguata rete affettivo-familiare e sociale che funga da sostegno nelle situazioni critiche; per queste persone le scelte devianti rappresentano in qualche caso una necessità di sopravvivenza, ma più spesso l’espressione di un disagio sociale che potrebbe essere contenuto con strumenti ben più efficaci di quello penale» (Rapporto Antigone, 2001, p.17).
Possiamo quindi continuare a fregarcene di questa parte di popolazione che ad oggi è formata da circa 55.000 persone o iniziare a conoscere in modo consapevole e più responsabile il posto in cui vivono, i danni che subiscono e quante irrisorie siano le possibilità, una volta scontata la pena, di poter vivere una vita diversa. Forse, dopo esserci lamentati per mesi di una vita che assomiglia solo lontanamente alla loro quotidianità possiamo comprendere meglio o almeno possiamo provare a non ricadere nuovamente negli ormai triti e ritriti luoghi comuni sul carcere e sulle vite che lo subiscono.
E forse a partire da questo possiamo immaginare che cosa voglia dire vivere così per dieci giorni, dieci mesi, dieci anni. A cosa serve passare le proprie giornate in queste condizioni? Che cosa si può imparare in un simile contesto? Come si può pensare che tale segregazione sia una soluzione reale ai problemi sociali? La violenza e l’emarginazione dell’istituzione carceraria non creano altro che ulteriore violenza ed emarginazione. E questo perché le persone che stanno “lì dentro” appartengono alla società e a lei dovranno tornare. La soluzione non può essere la loro ghettizzazione, perché questo non porta né quella rieducazione che viene dichiarata come obbiettivo né tanto meno sicurezza. Per tali ragioni è oggi più che mai necessario immaginare una società diversa che sappia fare a meno di questi luoghi di abbruttimento e di prevaricazione. Che sappia fare a meno di queste macchine di esclusione e di sofferenza che non si possono in alcun modo riformare ma solo abbattere una volta per tutte. Come si abbatterono i manicomi: istituzioni totali altrettanto mostruose e degradanti, le cui mura caddero solo dopo lunghe lotte e nonostante il timore instillato da chi voleva la malattia mentale imprigionata, isolata e punita.
I veri criminali siedono in parlamento e nei consigli di amministrazione. Sono loro a costringere migliaia di persone alla fame e alla cosiddetta “delinquenza”. Un’altra società, che sappia fare a meno di prigioni e galere, che si fondi sull’uguaglianza, la solidarietà e il mutuo appoggio è possibile. E sta a noi batterci per realizzarla.
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