Sabato 26 Novembre – dalle 19:30 @ L.A. Miccia Via Toti 5, Asti
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la Miccia coglierà l’occasione per proiettare il film d’animazione Persepolis.
“Persepolis” è il racconto di una città, quella di Teheran, della sua storia di rivoluzioni e guerre viste attraverso gli occhi di Marjane Satrapi, dall’età di 9 anni fino ai 22. E, soprattutto, è il racconto della sua crescita, del suo viaggio alla scoperta di sé stessa e di un posto nel mondo.
Vi aspettiamo per poter fare quattro chiacchiere sul film, sulla situazione attuale in Iran e su ciò che volete portare e condividere con noi.
Ieri, sabato 16 luglio, la spezzona indecorosa, nata dal Laboratorio Autogestito La Miccia e dall‘assemblea permanente del Boschetto Autogestito, ha sfilato per le strade di Asti, durante il secondo Pride cittadino.
Anche quest’anno abbiamo deciso di prendere parte a questa iniziativa in modo critico, portando in piazza tematiche ormai abbandonate da parate cittadine ufficiali che sono state svuotate da ogni conflittualità politica.
In testa alla nostra spezzona troneggiava una creatura mostruosa: il volto coperto da una bandana, nelle mani filo spinato spezzato, vibratori, bottiglie incendiarie, uno zoccolo di vacca e un dito medio. A simboleggiare la rottura dei confini e di tutte le frontiere: siano esse di genere, di specie o tracciate nel Mediterraneo, in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso. Nelle leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, nelle leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha. Le frontiere tra i generi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, che ingabbiano le relazioni, fissano i ruoli, negano la possibilità di percorsi individuali fuori dal reticolo patriarcale, statale, religioso.
Sotto i tacchi a spillo della creatura la testa di un alpino. Questo corpo militare, con il suo seguito di simpatizzanti, è l’emblema del machismo, delle cultura dello stupro e di un militarismo che sempre più cancella i confini tra guerra interna ed esterna. Gli alpini che ritornano dalle varie missioni imperialiste all’estero, sono infatti schierati in Val di Susa a difesa del TAV e nelle strade delle nostre città attraverso l’operazione “strade sicure”.
Durante il percorso si sono susseguiti numerosi interventi: sulla grassofobia, sul poliamore, sui Centri di permanenza per il rimpatrio, sulla bisessualità, sul carcere, sui moti di Stonewall come rivolta contro la polizia portata avanti da persone razzializzate, frocie e sex workers, contro la normalizzazione dei pride, sulle intersezioni tra le lotte antispeciste e quelle trans-femministe e queer, contro l’idea che le strade sicure le facciano i militari e le telecamere.
Abbiamo distribuito centinaia di volantini, ballato, urlato a squarciagola dietro al nostro striscione “INDECOROSƏ”, rivendicandoci la carnevalata, il cattivo gusto, la provocazione, la nostra esistenza fuori da ogni binarismo, genere e confine preimpostato. Abbiamo stretto tentacoli di complicità e lotta con lu compagnu da fuori. Ringraziamo tutte le persone che ci hanno aiutato a costruire questa spezzona di lotta favolosamente indecorosa.
Una creatura si aggira per le strade della nostra città. Preti, governi e fascisti di ogni genere si sono alleati in una santa crociata contro di lei.
L’entità ha la faccia coperta ma non si nasconde. Il suo volto è coperto ma non ha paura perché sa una cosa: che le strade sicure le fanno le persone che le attraversano e non le divise o le telecamere. E oggi siamo in tanti, tante, tantu.
Gli occhi della creatura brillano attraverso il passamontagna. Lo sguardo provoca e sfida chi la preferirebbe remissiva, decorosa, rassicurante, magari vendibile sugli scaffali del supermercato o dentro un’urna elettorale, con un bell’arcobaleno per qualche quattrino o voto in più.
L’entità si aggira per queste strade e non vuole più essere legittimata, venduta, difesa da un ordine opprimente fatto di controllo e repressione. Vuole godere e far godere.
Il suo corpo è fluido e si snoda libero come il corso di un fiume, come lo scorrere delle sue acque e sfugge le categorie di chi vorrebbe incasellarla per sempre in un ruolo. Il suo corpo liquido non si lascia intrappolare e brilla al sole: favoloso, sinuoso, sfavillante, come le spire di un serpente.
Un serpente che non striscia ma fa bella mostra di sé: dei suoi tacchi a spillo, dei suoi peli, della sua ciccia, del suo corpo non produttivo, non conforme.
Le mani della creatura si alzano a strappare i confini e le frontiere che ogni giorno dividono e uccidono. Nel Mediterraneo, in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso.
Le frontiere che sono ovunque in mezzo a noi: nelle leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, nelle leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha. Le frontiere tra i generi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, che ingabbiano le relazioni, fissano i ruoli, negano la possibilità di percorsi individuali fuori dal reticolo patriarcale, statale, religioso.
La creatura si aggira per le nostre strade e non ne vuole più sapere di un mondo diviso tra sommersi e salvati, tra cittadini e stranieri. Tra individui che sono maschi perché forti, violenti, ambiziosi. E persone che sono femmine perché hanno la possibilità e l’obbligo di sfornare figli, essere amorevoli, umili e sentimentali.
La creatura ha molte braccia e le sue mani stringono bottiglie piene di fiamme, speranze, desideri, rabbia. Rabbia per Cloe e per tutte le sorelle uccise, stuprate, molestate e vessate dalla violenza di chi ha incatenato ogni soggetto a un compito prestabilito fin dalla nascita. La sua rabbia esplode e divampa contro chi ci dice che ce la siamo cercata, che i nostri vestiti non erano appropriati. Contro chi vuole privarci della possibilità di decidere sul nostro corpo. Decidere come, quando e se avere dei figli. Decidere chi e come amare. Un incendio liberatore contro i molestatori che festeggiano una menzogna chiamata patria, tra un bicchiere di vino e una violenza sessuale.
La creatura ha zampe di animale ma non vuole più essere carne da macello, non vuole più sentirsi come un pezzo di carne, come un oggetto inerte perché è un essere vivente, senziente. Non vuole più essere una macchina riproduttiva ma una scrofa, una cagna, una vacca libera.
Una creatura si aggira per le strade della nostra città. Non è uno spettro. È la lotta frocia, queer e trans-femminista: contro chi ci impedisce di costruire le nostre vite in autonomia. È una lotta che vuole fare macerie di questa società patriarcale e violenta fatta di esclusione, sfruttamento, massacri e guerre. Che vuole fare macerie di tutto questo perché ha braccia forti per ricostruire. Perché un mondo nuovo lx batte in petto. Un mondo fatto di libera sperimentazione, autogestione e mutuo appoggio. Un mondo che sta crescendo in questo stesso momentodavanti ai vostri occhi.
Il primo pride è stato una rivolta. E ora? Rivoluzione.
A fine marzo il parco Biberach è stato teatro di una aggressione omofoba ai danni di un* giovane crossdresser, che ha pubblicamente denunciato l’aggressione rivendicando con coraggio e orgoglio la libertà di esprimere la propria unicità. Ad Asti sono state molte le aggressioni di questo tipo, e per alcune persone l’unica via d’uscita da questa violenza è stato il suicidio: l’odio opprime, soffoca ed uccide. Ci siamo chiestx quale contributo potevamo dare nel concreto per portare la nostra solidarietà a chi continua a subire violenza, discriminazione e micro-aggressioni perchè osa vivere fuori dalla norma cis-etero-patriarcale. Conosciamo solo una risposta e la diamo a modo nostro.
Pensiamo che per rendere più sicuro uno spazio l’unica soluzione sia attraversarlo, a testa alta, senza aver paura di mostrarci per come siamo: diversu, fuori norma, indecorosə e mostruosə. Non chiediamo tolleranza, ci rivendichiamo questo spazio celebrando il mese del Pride: frocizziamo il parco Biberach!
Invitiamo tutte le individualità e le realtà affini a raggiungerci per un pomeriggio di rivalsa, gioia e lotta. La nostra Fata Madrina sarà la nostra punkastorie, anarkekka e indecorosa preferita: Filo Sottile!
Domenica 27 Giugno alle ore 16:30 al Parco Biberach
Creature mostre delle galassie, uniamoci! Frocizziamo il parco! Riprendiamoci gli spazi!
Suggerimenti per la giornata:
No bar: noi porteremo solo acqua, invitiamo chi vuole consumare cibo o bevande ad organizzarsi autonomamente.
Cerchiamo l’ombra ma farà caldo: portiamoci cappellini, acqua, ventagli, autan, una coperta da mettere sul prato, la crema solare, la ciotola per i cani, ecc.
Esprimiamo la nostra unicità: riscriviamo questa storia attraversando la giornata in piena libertà. peli, zampe, makeup sfavillante, magliette sudate, cellulite o pancette: non ci sono corpi sbagliati, vestiti sbagliati, relazioni sbagliate. portiamoci tutta la nostra bellezza e bruttezza, mostruosità e favolosità, mimetizzazione o eccentricità: l’anomalia è nessuna norma!
Rendiamo il parco un luogo accogliente: ci sono piante, animali, umani grandi e piccoli che lo vivono e lo attraversano. teniamone conto!
Responsabilità individuale e collettiva: diamo senso alla giornata partecipando attivamente. qualcunx ha bisgono di una mano? sta succedendo qualcosa di problematico? attiriamo l’attenzione, diamo una mano, non lasciamo nessunx indietro, non diamo nulla per scontato. chiunque, che sia nell’organizzazione o voglia solo partecipare come spettatore, può fare qualcosa.
Il covid esiste ancora: anche se molte persone hanno già fatto il vaccino e saremo all’aperto, accertiamoci sempre del consenso nella vicinanza, prendiamoci cura di chi ci sta accanto, mettiamoci la mascherina. il consenso è sempre la chiave per relazionarsi, senza eccezioni.
Tutto questo non finisce nella giornata di domenica ma dobbiamo portarcelo sempre dietro se vogliamo rendere sicuri e inclusivi gli spazi che attraversiamo.
Fin dalla nascita del nostro collettivo abbiamo portato avanti momenti di lotta, di informazione e di dibattito sulle rivendicazioni transfemministe e queer. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo perché riteniamo l’oppressione etero-patriarcale un fatto intollerabile che avvelena e annichilisce tuttu noi.
Il transfemminismo queer e intersezionale è parte della nostra identità errante.
Conosciamo bene gli effetti devastanti sui corpi della cultura omo-lesbo-bi-trans-fobica e conosciamo bene i difensori di tale cultura.
Conosciamo i loschi personaggi che si stanno opponendo del tutto pretestuosamente al DDL Zan: i catto-fascisti del movimento pro-life, della cosiddetta “famiglia naturale”, gli anti-abortisti, quellx che considerano la donna madre e custode del focolare domestico, quellx che pensano che la transessualità sia perversione e che l’omosessualità sia un male da curare, anche a suon di botte. Sappiamo chi sono, ci siamo scontrati mille volte con questa immondizia reazionaria e continueremo a farlo.
Conosciamo il mondo che vogliono proteggere, semplicemente perché è proprio quel mondo ciò che più di ogni altra cosa vogliamo abbattere. Abbattere una volta per tutte l’idea che la vita non abbia senso al di fuori della trinità mortifera di Dio-Patria-Famiglia.
Sappiamo benissimo che l’obiettivo della destra cattolica di declassare l’omofobia, la transfobia, la bifobia e la lesbofobia a problemi da non affrontare mai e da invisibilizzare, è funzionale al mantenimento del sistema di oppressione etero-patriarcale, attorno al quale si tutela il privilegio del maschio bianco. Noi ci opponiamo con forza al modello violento della Famiglia tradizionale, quella ingessata nel binarismo di genere e nella sottomissione della femminilità relegata nel corpo della donna biologica.
La lotta contro questi catto-fascisti ci ha negli anni avvicinato a vari movimenti transfemministi e queer non normalizzati e non estetizzati, ci ha spinto a lottare e a dialogare con soggettività che insieme all’etero-patriarcato rifiutano di farsi incorporare in un processo di cambiamento senza una vera traNsformazione sociale.
Tali movimenti hanno elaborato una serie di riflessioni intorno al DDL Zan che crediamo sia importante affrontare in questa piazza.
Il DDL non è partito dall’ascolto attento delle elaborazioni transfemministe e da quelle della comunità LGTBQIPAI+ . Non è altro che un’integrazione della legge Mancino. Tale legge rimane completamente dentro una logica punitiva e repressiva, senza andare a toccare minimamente le condizioni strutturali che rendono possibili la violenza omo-lesbo-bi-trans-fobica quotidiana. Il DDL infatti non prevede alcuna implementazione culturale, come i programmi di educazione alle differenze di genere, alla sessualità e all’affettività. E i 4 milioni di euro destinati dalla legge ai “centri per il sostegno delle vittime di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere” sono assolutamente insufficienti e non sono previsti corsi di formazione per tutto il personale nelle varie istituzioni
Il DDL poi include definizioni su orientamento sessuale, identità di genere, genere, sesso ambigue e spesso discriminatorie ed errate. Definisce le persone trans* con la parola “transessuali”, definizione non rappresentativa della molteplice esperienza trans* ed esclude altre identità (persone asessuali e non binarie) dalla protezione contro le discriminazioni.
Le aggressioni fisiche compiute da singoli individui che questa legge punisce sono solo la punta dell’iceberg; l’omo-trans-lesbo-bi-fobia è un problema strutturale della nostra società ed è principalmente di Stato: comincia nelle famiglie, cresce nelle scuole, e finisce nelle prigioni dove continua a propagarsi.
Per queste ragioni non crediamo che inasprire le pene o riempire le galere sia la soluzione ai nostri problemi. Le minacce di detenzione e le pene esemplari non sono mai reali soluzioni ai problemi sociali. Il sistema punitivo si rivolge troppo facilmente solo alle fasce sociali più svantaggiate. E recludere i corpi continua a essere la soluzione per togliere dalla vista le persone povere, mettere a tacere quelle che dissentono, escludere quelle, a vario titolo, irregolari. Un transfobico in galera non cancella l’omo-lesbo-bi-trans-fobia, un’esperienza dietro le sbarre, la privazione della libertà, non può rendere migliore né la società, né le persone che la sperimentano.
Contrastare la violenza eteropatriarcale è una lotta di tutti i giorni, perché la violenza è quotidiana e strutturale. Rilanciamo quindi e rivendichiamo oggi una battaglia che superi l’approccio legalitario/repressivo e combatta sul piano culturale e politico la violenza etero-patriarcale in tutti i settori della nostra società.
La nostra lotta è appena cominciata. Vogliamo una scuola dove vengano abbattute le barriere di genere, classe, razza, orientamento sessuale. Una scuola che educhi alle differenze di genere – sì, chiamatelo gender se volete: è insegnamento di consapevolezza e libertà, di rispetto di sé e degli altri. Vogliamo educazione sessuale e campagne di prevenzione e riduzione della violenza omo-lesbo-bi-trans-fobica. Vogliamo accesso anonimo e gratuito a screening e terapie per tuttx. Vogliamo centri antiviolenza autonomi e gestiti dal basso, con personale formato. Vogliamo consultori liberi dalle ingerenze della chiesa e ospedali liberi dagli obiettori, vogliamo case-famiglia e centri di rifugio per chi nella famiglia trova solo violenza e oppressione. Vogliamo frocizzare gli spazi cittadini e renderli sicuri con la nostra presenza, i nostri attraversamenti, i nostri corpi. La violenza è di Stato ed è strutturale. La soluzione non può che venire dal basso, attraverso l’azione diretta, l’auto-organizzazione e una traNsformazione radicale che coinvolga tutti, tutte e tuttu.
Il 2 ottobre 2020 la Regione Piemonte, presieduta dal forzista Cirio, ha emanato una circolare che limita l’uso del farmaco RU 486 per l’interruzione volontaria di gravidanza alle sole strutture ospedaliere, in opposizione a quanto stabilito in agosto dal ministero della sanità che ne aveva ampliato l’uso anche nei consultori. Un divieto esplicito che si accompagna, nella stessa circolare, ad un’iniziativa grottesca: l’apertura degli ospedali alle associazioni antiabortiste pro-life.
Oggi la regione dà seguito alla circolare inviando alle Asl le indicazioni per avviare collaborazioni con queste associazioni per la “tutela della vita fin dal concepimento”. Conosciamo bene questi gruppi e la loro narrazione, li abbiamo visti a Verona con i loro feti di plastica, li conosciamo e rifiutiamo la loro interferenza sulle decisioni che riguardano solo noi e i nostri corpi. Ci propongono la loro retorica bugiarda e ipocrita “in difesa della vita” mentre lavorano alacremente proprio per negarci la vita e la libertà, cercando di privare ciascuna di noi di quella che deve essere una libera scelta.
Condannare le donne alla maternità come obbligo è omicida perchè significa ricacciarci tra le grinfie dell’aborto clandestino. E questo proprio grazie ai cattofascisti del movimento pro vita che, ben lungi dal difendere la vita, hanno sulla coscienza le esistenze di migliaia di donne massacrate dall’aborto clandestino, dai decotti al prezzemolo, dalle grucce, dalla povertà, dall’impossibilità di scegliere.
Questo vile attacco alla libertà delle donne è possibile proprio nel nome della legge 194 del 1978, che stabilisce le procedure legali per l’aborto. Una usata come grimaldello per rendere più difficile quando non impossibile la scelta delle donne.
In Piemonte la 194 viene infatti usata come giustificazione per limitare l’aborto farmacologico e per dare spazio ai catto-fascisti: nella circolare emanata dalla giunta Cirio, le misure restrittive adottate sono giustificate proprio come attuazione della 194.
Sembra una contraddizione, ma è quotidianità. A fronte di tutto questo possiamo bene vedere le leggi per quello che sono: rappresentazioni ritualizzate dei rapporti di forza presenti all’interno della società. Lettere morte di movimenti vivi che hanno cercato e cercano tuttora di realizzare un’emancipazione totale della società e non solo piccoli miglioramenti parziali. Lotte che avendo incominiato a gustare un po’ di libertà erano intenzionate a prendersela tutta. Tante leggi, a posteriori definite “conquiste”, non sono state infatti altro che limitate concessioni a movimenti che miravano a ben di più.
Oggi i percorsi della libertà femminile sono sotto il costante attacco di chi vorrebbe riproporre una visione patriarcale dei generi e di chi individua nella maternità un destino da cui le donne non devono sottrarsi, tornando docili nella gabbia familiare. La negazione delle identità non conformi e l’asservimento delle donne libere sono due facce della stessa medaglia, indispensabili alla riaffermazione della famiglia come nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini. La famiglia è la fortezza intorno alla quale i raggruppamenti identitari e sovranisti pretendono di ri-fondare un ordine politico e sociale gerarchico ed escludente, fondato sul privilegio e sull’oppressione di chi ne è escluso.
La giunta Cirio mira a cancellare i percorsi della libertà femminile, ponendo le donne sotto tutela: ci descrivono come soggetti deboli, incapaci di decidere per noi stesse e quindi bisognose di una guida che ci faccia desistere dall’insano proposito di essere libere.
Questo sostegno, nel caso della Regione Piemonte, arriverebbe dalle associazioni pro-vita. Enti che agiscono da decenni come soggetti privati ma oggi entrano nelle strutture sanitarie con il finanziamento della Regione e in osservanza alla legge 194.
“Il presidente della Regione e gli assessori alla Sanità e agli Affari legali precisano che tali indirizzi rispondono alla volontà, unanimemente condivisa dalla Giunta regionale e dai presidenti dei gruppi consiliari di maggioranza, di garantire il pieno rispetto delle disposizioni della legge 194 poste a garanzia della piena libertà di scelta della donna se interrompere volontariamente la gravidanza o se proseguirla”.
Nella neolingua del governo regionale piemontese, per difendere “la libertà di scelta della donna”, si finanziano gli sportelli delle associazioni antiabortiste.
Il vero nodo è la legge 194, la legge che, dopo la depenalizzazione dell’aborto, pose seri limiti alla libertà di scelta delle donne. La 194 è una gabbia normativa, che i nemici della libertà femminile hanno imparato ad usare.
Due anni fa l’Avvenire indicava nell’obiezione la strada maestra per rendere impossibile scegliere di abortire. In Piemonte oltre il 60% dei medici si dichiara obiettore. In molte zone d’Italia si arriva al 100%. Questa strategia è comune e diffusa in tutti gli ambienti reazionari come il modo più funzionale per ostacolare libertà come l’aborto o la transizione di genere: non negarne legalmente l’esistenza, almeno non ancora, ma renderle di fatto difficili da esercitare e quanto più possibile impraticabili.
Non vogliamo limitare la libertà dei medici di rifiutare di agire contro la propria coscienza, d’altra parte esistono decine di specializzazioni in cui un medico può formarsi senza mai sfiorare un aborto. Ma pretendiamo che si diano le condizioni perché nessuno limiti la libertà di scelta delle donne, perché nessuno metta a repentaglio le nostre vite, perché nessuno possa ricattarci, umiliarci, piegarci.
Eravamo fuorilegge, siamo state messe sotto l’ombrello della legge: è tempo che si lotti per essere davvero libere. Senza legge.
Basta allo stigma e al ricatto sui nostri corpi, basta ai sensi di colpa patriarcali con cui le associazioni pro-vita vogliono manipolarci. Cacciamo i catto-fascisti dagli ospedali!
Lottiamo per spazzare via il patriarcato dalle nostre vite!
Fischi, scherni, insulti, palpate. Le aggressioni, le botte, gli stupri. La morte, per femminicidio o per suicidio in seguito alla diffusione di video intimi senza consenso o a violenze fisiche.Ogni donna, persona trans e LGBTQI+ ha vissuto sulla propria pelle la cultura dello stupro con cui si manifesta il patriarcato. Anche qui è capitato: nel 2017 Lydia, una giovane ragazza trans si è tolta la vita in seguito ad una violenza sessuale in un parco cittadino.Le telecamere c’erano, ma non è cambiato nulla. L’aggressore è stato condannato, ma ha davvero capito ciò che ha fatto?Il patriarcato è quello che ci ha insegnato a rassegnarci e sentirci vittime impotenti, a mimetizzarci e nasconderci, a non frequentare la città buia, a non bere troppo.Andiamo in bagno in branco e camminiamo veloci fingendo di telefonare. Impariamo a rispondere “sono fidanzata” ad una avance insistente invece di rispondere “vattene affanculo”, come se ciò che ci legittima a rifiutare quella proposta fosse solo che siamo già di qualcuno. Impariamo a cercare protezione nella famiglia, questa istituzione onnipresente che costituisce proprio la dimensione minima e necessaria del patriarcato.Infatti non per caso è proprio in famiglia che avvengono la maggior parte degli abusi, quando ci prendiamo troppe libertà o facciamo coming out. Troppo spesso è il partner che ci mena e ci violenta, ci manipola, ci priva della nostra indipendenza e se proviamo a lasciarlo è anche peggio. Non è difficile ritrovarsi in una quotidianità fatta di abuso in cui diventa normale essere sminuite, picchiate, minacciate e chiuse a chiave in casa, fino a doversi calare dal balcone per andare a lavoro spaccandosi i talloni, come è successo proprio qui ad Asti ad una donna che ha subito per anni violenze da parte del partner.Il patriarcato è quando denunciamo, quando ci facciamo refertare in pronto soccorso, e impariamo poi che non esiste misura cautelare in grado di proteggerci, e quando infine dobbiamo andare in tribunale ci troviamo non a testimoniare le violenze subite, ma a dover difendere la nostra condotta.Sì siamo sopravvissute, ma come eravamo vestite?Abbiamo bevuto? Lo abbiamo invitato a casa? Lo abbiamo provocato? Abbiamo forse causato quel raptus in qualche modo? Forse era solo folle d’amore. Lo abbiamo tradito o volevamo lasciarlo? Una narrazione tossica in cui i media sguazzano senza ritegno.Ci insegnano ad affidarci alle forze dell’ordine. Quando però sono i carabinieri a violentare, in tribunale le vittime si sentono chiedere se provano una segreta attrazione per gli uomini in divisa e se indossavano le mutande.Ad Asti solo nel 2019 ci sono stati più di 160 accessi di donne al pronto soccorso per violenza domestica. I numeri sono in crescita ma sappiamo che è solo la punta dell’iceberg, perché prima di arrivare al pronto soccorso sono decine e decine gli episodi che vengono nascosti.Durante il 2020 la pandemia non ha cambiato nulla nella sostanza: pur in un anno così anomalo più di 60 donne hanno dovuto rivolgersi al pronto soccorso. Nonostante il calo drastico degli omicidi in generale, le donne vittima di femminicidio sono passate dal 30% al 60% del totale, 15 solo in piemonte. Contemporaneamente perdiamo indipendenza economica ad un ritmo vertiginoso: di 101 mila posti di lavoro persi nell’ultimo anno, 99 mila erano lavoratrici donne.Non ci servono a niente strade piene di lampioni, telecamere e divise, perché la causa di tutta questa violenza non è nel buio dei marciapiedi e nella carenza di forze dell’ordine, è in un sistema che ci definisce come proprietà di altri, lavoro domestico e corpi gratis a disposizione di un sistema di potere patriarcale.Per questo non vogliamo che della nostra sicurezza si prenda cura lo Stato, con il suo apparato di forze dell’ordine, galere e confini, dispositivi schierati contro le nostre libertà.Nel nostro quotidiano possiamo smettere di lasciarci definire solo come vittime e agire. Possiamo partire dal riconoscimento degli abusi e delle forme in cui la violenza si manifesta ben prima di diventare eclatante, dalla creazione di reti solidali, centri di ascolto, possiamo sperimentare pratiche collettive e individuali di resistenza a queste dinamiche.Vogliamo essere libere, liberi e liberu e abbiamo ormai imparato che l’unica via di fuga da questo sistema è nelle nostre mani.
Per la nostra sicurezza dobbiamo distruggere la cultura dello stupro e il patriarcato.
Oggi è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Giornali, televisioni e social si riempiono di slogan contro la violenza sulle donne, descritta attraverso la solita narrazione di singoli e inspiegabili raptus di follia, gesti disperati ed estremi di amore e gelosia. Amare troppo qualcuno. Amarlo fino a fargli del male, fino ad ucciderlo ma in fondo amarlo. Giustificazioni che offrono attenuanti a chi uccide, picchia e stupra.
Ma le 6 milioni e 788 mila donne che hanno subito almeno una volta violenza (fisica o sessuale) nella propria vita non sonovittime incidentali di una violenza estemporanea. Questi dati rendono evidente che la violenza sulle donne è strutturale all’interno di questa società patriarcale in cui il dominio dell’uomo sulla donna è la regola e non l’eccezione.
Questi numeri e le moltissime testimonianze della violenza contro le donne descrivono un vero bollettino di guerra, una guerra contro le donne che consapevolmente o meno decidono di uscire dalla logica patriarcale, che osano mettere fine ad una relazione o vivere liberamente la propria indipendenza e sessualità.
L’oppressione patriarcale non è esercitata solo dai partner, dalle famigliee da singoli individui, ma è agita anche dalle istituzioni.
In quest’anno anomalo in cui moltissime donne sono costrette in casa per lunghi periodi con i propri aguzzini, una delle situazioni in cui si riscontrano più difficoltà è l’accesso libero, sicuro ed anonimo all’interruzione di gravidanza. Pensiamo ad esempio a chi deve, per la propria sicurezza, tenere nascosta tale decisione alla famiglia e alle difficoltà di trovare spazio in strutture ospedaliere per un ricovero. Eppure ci sono esponenti delle istituzioni che trovano ancora il tempo e le energie per dedicarsi ad ostacolare la libertà di scelta e l’accesso all’IVG.
Basti pensare alla circolare emanata il 2 ottobre dalla Regione Piemonte,in cui viene fatto esplicito divieto di somministrare la pillola abortiva RU 486 nei consultori, in opposizione a quanto stabilito in agosto dal ministero della sanità. In questo modo in Piemonte l’aborto farmacologico potrà essere effettuato soltanto nelle strutture ospedaliere e con ricovero fino a tre giorni, decisione che viene giustificata con la tutela della salute delle donne, usando la stessa legge 194 del 1978 come grimaldello per limitare l’accesso all’interruzione di gravidanza.
Non solo. Nella stessa circolare viene permesso alle associazioni antiabortiste cattofasciste pro-vita di fare propaganda negli ospedali istituendo sportelli,con il preciso scopo di convincere le donne a portare a termine la gravidanza.
L’ennesimo attacco alla libertà femminile da parte di chi vorrebbe riproporre una visione essenzialista dei generi, che individua nella maternità un destino da cui le donne non dovrebbero sottrarsi, tornando docili nella gabbia familiare. L’ennesimo tentativo di cancellare i percorsi di liberazione femminile ponendo le donne sotto tutela, soggetti deboli, incapaci di decidere, bisognosi di un sostegno.
Di fronte a tutto questo è necessario riprendere percorsi di lotta, di solidarietà e di azione diretta fra tutti coloro che rifiutano il modello patriarcale. Non abbiamo bisogno di creare nuove leggi che un giorno qualche signore al potere possa rigirare al proprio scopo, come in questo caso: abbiamo urgenza invece di porre le condizioni affinchè nessuno metta mai più a repentaglio la libertà di scelta e la vita delle donne, perché nessuno possa ricattarci, umiliarci, piegarci. Le nostre vite ci appartengono e sta a noi difenderle. Non solo un giorno all’anno con qualche slogan, ma con i nostri corpi, denunciando le sistematiche narrazioni tossiche fatte da giornali e tv, cacciando i cattofascisti dagli ospedali, riprendendoci con la nostra presenza le strade e i consultori, spezzando le gabbie familiari fatte di omertà e di oppressione, dando voce a chi non ne ha, a chi si sente imprigionatxin relazioni soffocanti e senza via d’uscita. Distruggere il patriarcato non è solo necessario, èpossibile.
Se queste riflessioni ti interessano, qui ad Asti c’è uno spazio autogestito dove poterne parlare e discutere liberamente. Creiamo reti solidali, auto–organizziamoci!