CIANOTIPIE AL PARCO

Oggi al bosco dei Partigiani siamo riuscit* a fare il workshop di cianotipie nonostante il tempo incerto ! Dopo ci siamo mess* a ripulire il bosco come sempre. Grazie a tutt* i/le partecipanti e un grazie enorme ad Eleonora Cerrato per averci guidato nel laboratorio!
AZIONE DIRETTA E AUTOGESTIONE CONTRO DELEGHE E RASSEGNAZIONE

 

Il sole esiste per tutti

CIANOTIPIE AL PARCO

Cianotipia realizzata da Eleonora Cerrato.
Workshop di stampa fotografica alternativa.
Domenica 25/07 H16:00 ci troviamo al Bosco dei Partigiani (all’anfiteatro), Eleonora Cerrato ci accompagnerà nel mondo della Cianotipia, un antico metodo di stampa fotografica.
EVENTO A OFFERTA LIBERA.
Gradita prenotazione: 3336539820
Noi porteremo un pò di Autan e altre diavolerie per le zanzare, ma se riesci portatelo dietro per non rimanere senza.
Al Workshop seguirà un momento di pulizia parco se hai voglia di darci una mano arriva attrezzat*: Vestiti da lavoro, guanti, sacchi dell’immondizia ecc..

NON SONO MELE MARCE

Presidio anticarcerario 2 luglio.

MELE MARCE?

Sul web corrono veloci le immagini agghiaccianti del pestaggio punitivo avvenuto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, come atto di vendetta dopo la rivolta da parte dei detenuti nel mese di Aprile in piena pandemia. Quasi contemporaneamente escono le immagini e la storia di un’agressione violentissima subita da dei ragazz* non bianch* a Milano, sempre da parte della polizia.

Un fiume di soprusi e violenza che si ingrossa di più ogni giorno che passa e tutto questo all’avvicinarsi del ventennale del G8 di Genova, dove la polizia uccise Carlo Giuliani, picchiò e torturò migliaia di persone.

Riguardo ai fatti di Santa Maria Capua Vetere la risposta da parte dello Stato sembra essere esemplare e celere: 52 misure cautelari, sospensioni e incarcerazioni. A cosa servirà tutto questo? Ben poco. Queste azioni legali serviranno solo a sostituire il corpo della polizia penitenziaria di quella sezione creando ancora di più un clima di tensione tra detenuti e guardie, perchè il ricordo e le ferite di quella notte non passeranno facilmente.

Dopo una prima ondata di indignazione che ha attraversato giornali e coscienze, la narrazione proprosta è ritornata ad essere sempre la stessa: sono mele marce, anomalie, ingranaggi arrugginiti di un meccanismo di per sé giusto ma che ha bisogno di una bella oliata e di maggiore controllo.

Ciò che è successo però non è un’eccezione ma la regola. La violenza fa parte della quotidianità delle carceri, è il seme da cui nasce questa istituzione. Privare le persone della propria libertà e rinchiuderle tra quattro mura in cui solo chi ha la divisa detiene il potere non può che portare a metodi e pratiche violente. Continueremo a denunciare l’atrocità e l’inutilità di questi luoghi che hanno l’unico scopo di ghettizzare ed annullare le persone considerate indecorose e scomode per la società.

Il carcere non si può addolcire, il carcere non può essere riformato. L’unica soluzione è abbatterlo e trovare risposte adeguate alle situazioni di emarginazione e criminalizzazione.

Contro tutte le galere e contro tutte le violenze poliziesche. Per un mondo fondato sull’uguaglianza, il mutuo appoggio, la solidarietà. Non sono mele marce: è la pianta che è da estirpare. Non sono casi isolati: è il sistema sociale che deve essere cambiato alla radice

Volantino pdf

Comunicato del Laboratorio Autogestito La Miccia sulla prima assemblea al Bosco dei Partigiani

Ieri eravamo presenti alla prima assemblea al bosco dei partigiani. Abbiamo ritenuto importante esserci per rimarcare il fatto che quel luogo non è completamente abbandonato: infatti noi come Laboratorio Autogestito insieme a molte altre persone e realtà in questi anni abbiamo riempito il boschetto con numerose iniziative. Negli ultimi tre anni abbiamo usato la zona dell’anfiteatro per ospitare reading di poesia, pranzi popolari, chiacchierate transfemministe, spettacoli teatrali per grandi e anche per i tant* bambin* presenti agli eventi, esibizioni musicali e mostre di artisti locali. Abbiamo sempre organizzato tutto questo in piena autogestione e rendendo il parco accessibile a tutt*. Qualche scritta sul muro trovata al nostro arrivo o qualche ragazz* seduto sulle gradinate a fumare o bere non hanno mai rappresentato una minaccia per i presenti. Prima e dopo ogni evento ci siamo sempre attivat* per pulire gli spazi usati, perché siamo profondamente convint* che la collettività che vive un posto debba anche prendersene cura, senza deleghe di sorta.
Ieri abbiamo provato a raccontare tutto questo, seriamente preoccupat* da un serie di proposte emerse da una parte dell’assemblea: quelle di chiudere il parco la notte, riempirlo di telecamere e farlo pattugliare dalle forze dell’ordine.
Scriviamo questo comunicato per ribadire quanto già detto ieri in assemblea: non sono chiusure, telecamere e pseudo-ronde a rendere un posto sicuro, ma le persone che lo attraversano e lo vivono ogni giorno. Un parco per essere sicuro deve essere vissuto dalla comunità e tutto questo può avvenire attraverso momenti di incontro, arte, aggregazione e partecipazione attiva alla gestione e alla manutenzione del parco. Come collettivo ci opponiamo a ogni forma di controllo, chiusura e militarizzazione degli spazi pubblici. Per questi motivi ci rifiutiamo di collaborare con determinate organizzazioni politiche e di stampo militaresco che propugnano una visione del mondo fobica e securitaria.
Siamo invece aperti, l’abbiamo detto in assemblea e lo ribadiamo con questo scritto, alla ricerca di forme diverse di collaborazione con tutte quelle organizzazioni e individualità che ieri ci hanno dimostrato solidarietà davanti ad alcuni atteggiamenti autoritari ingiustificabili in un’assemblea popolare.
Un modello di rinascita del parco all’insegna dell’autogestione e dell’azione diretta è possibile e sarebbe, ne siamo sicur*, ben più efficace delle deleghe, petizioni e lamentele indirizzate ad una amministrazione che non se ne occupa o a politicanti di turno in passerella elettorale.
Come collettivo ci opponiamo fermamente all’idea che questo luogo diventi una sorta di bomboniera chiusa e sorvegliata fruibile solo da alcun* cittadin*, ma che continui ad essere sempre di più un luogo di incontro e di cultura, promuovendone la cura attraverso l’incontro tra chi lo ama o chi lo vuole riscoprire.
Non abbiamo bisogno di militari e telecamere ma di rimboccarci le maniche per riprendere in mano dal basso la progettualità degli spazi che viviamo. Senza deleghe e senza fobie securitarie.
L.A. MICCIA

Esplodere il silenzio, innescare l’autogestione.


Alcune immagini delle attività che abbiamo fatto negli ultimi anni al boschetto.

Esplosioni 2019

Esplosioni 2020

Chiacchierata transfemminista proprio sul tema della sicurezza negli spazi pubblici.

CHIAMATA INTERGALATTICA A TUTT LE CREATURE MOSTRE DELLE GALASSIE

FROCIZZIAMO IL PARCO

A fine marzo il parco Biberach è stato teatro di una aggressione omofoba ai danni di un* giovane crossdresser, che ha pubblicamente denunciato l’aggressione rivendicando con coraggio e orgoglio la libertà di esprimere la propria unicità. Ad Asti sono state molte le aggressioni di questo tipo, e per alcune persone l’unica via d’uscita da questa violenza è stato il suicidio: l’odio opprime, soffoca ed uccide. Ci siamo chiestx quale contributo potevamo dare nel concreto per portare la nostra solidarietà a chi continua a subire violenza, discriminazione e micro-aggressioni perchè osa vivere fuori dalla norma cis-etero-patriarcale. Conosciamo solo una risposta e la diamo a modo nostro.
Pensiamo che per rendere più sicuro uno spazio l’unica soluzione sia attraversarlo, a testa alta, senza aver paura di mostrarci per come siamo: diversu, fuori norma, indecorosə e mostruosə. Non chiediamo tolleranza, ci rivendichiamo questo spazio celebrando il mese del Pride: frocizziamo il parco Biberach!
Invitiamo tutte le individualità e le realtà affini a raggiungerci per un pomeriggio di rivalsa, gioia e lotta. La nostra Fata Madrina sarà la nostra punkastorie, anarkekka e indecorosa preferita: Filo Sottile!
Domenica 27 Giugno alle ore 16:30 al Parco Biberach
Creature mostre delle galassie, uniamoci! Frocizziamo il parco! Riprendiamoci gli spazi!
Suggerimenti per la giornata:
  • No bar: noi porteremo solo acqua, invitiamo chi vuole consumare cibo o bevande ad organizzarsi autonomamente.
  • Cerchiamo l’ombra ma farà caldo: portiamoci cappellini, acqua, ventagli, autan, una coperta da mettere sul prato, la crema solare, la ciotola per i cani, ecc.
  • Esprimiamo la nostra unicità: riscriviamo questa storia attraversando la giornata in piena libertà. peli, zampe, makeup sfavillante, magliette sudate, cellulite o pancette: non ci sono corpi sbagliati, vestiti sbagliati, relazioni sbagliate. portiamoci tutta la nostra bellezza e bruttezza, mostruosità e favolosità, mimetizzazione o eccentricità: l’anomalia è nessuna norma!
  • Rendiamo il parco un luogo accogliente: ci sono piante, animali, umani grandi e piccoli che lo vivono e lo attraversano. teniamone conto!
  • Responsabilità individuale e collettiva: diamo senso alla giornata partecipando attivamente. qualcunx ha bisgono di una mano? sta succedendo qualcosa di problematico? attiriamo l’attenzione, diamo una mano, non lasciamo nessunx indietro, non diamo nulla per scontato. chiunque, che sia nell’organizzazione o voglia solo partecipare come spettatore, può fare qualcosa.
  • Il covid esiste ancora: anche se molte persone hanno già fatto il vaccino e saremo all’aperto, accertiamoci sempre del consenso nella vicinanza, prendiamoci cura di chi ci sta accanto, mettiamoci la mascherina. il consenso è sempre la chiave per relazionarsi, senza eccezioni.

Tutto questo non finisce nella giornata di domenica ma dobbiamo portarcelo sempre dietro se vogliamo rendere sicuri e inclusivi gli spazi che attraversiamo.

Grazie, a domenica! <3

DDL ZAN?

Fin dalla nascita del nostro collettivo abbiamo portato avanti momenti di lotta, di informazione e di dibattito sulle rivendicazioni transfemministe e queer. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo perché riteniamo l’oppressione etero-patriarcale un fatto intollerabile che avvelena e annichilisce tuttu noi.

Il transfemminismo queer e intersezionale è parte della nostra identità errante.

Conosciamo bene gli effetti devastanti sui corpi della cultura omo-lesbo-bi-trans-fobica e conosciamo bene i difensori di tale cultura.

Conosciamo i loschi personaggi che si stanno opponendo del tutto pretestuosamente al DDL Zan: i catto-fascisti del movimento pro-life, della cosiddetta “famiglia naturale”, gli anti-abortisti, quellx che considerano la donna madre e custode del focolare domestico, quellx che pensano che la transessualità sia perversione e che l’omosessualità sia un male da curare, anche a suon di botte. Sappiamo chi sono, ci siamo scontrati mille volte con questa immondizia reazionaria e continueremo a farlo.

Conosciamo il mondo che vogliono proteggere, semplicemente perché è proprio quel mondo ciò che più di ogni altra cosa vogliamo abbattere. Abbattere una volta per tutte l’idea che la vita non abbia senso al di fuori della trinità mortifera di Dio-Patria-Famiglia.

Sappiamo benissimo che l’obiettivo della destra cattolica di declassare l’omofobia, la transfobia, la bifobia e la lesbofobia a problemi da non affrontare mai e da invisibilizzare, è funzionale al mantenimento del sistema di oppressione etero-patriarcale, attorno al quale si tutela il privilegio del maschio bianco. Noi ci opponiamo con forza al modello violento della Famiglia tradizionale, quella ingessata nel binarismo di genere e nella sottomissione della femminilità relegata nel corpo della donna biologica.

La lotta contro questi catto-fascisti ci ha negli anni avvicinato a vari movimenti transfemministi e queer non normalizzati e non estetizzati, ci ha spinto a lottare e a dialogare con soggettività che insieme all’etero-patriarcato rifiutano di farsi incorporare in un processo di cambiamento senza una vera traNsformazione sociale.

Tali movimenti hanno elaborato una serie di riflessioni intorno al DDL Zan che crediamo sia importante affrontare in questa piazza.

Il DDL non è partito dall’ascolto attento delle elaborazioni transfemministe e da quelle della comunità LGTBQIPAI+ . Non è altro che un’integrazione della legge Mancino. Tale legge rimane completamente dentro una logica punitiva e repressiva, senza andare a toccare minimamente le condizioni strutturali che rendono possibili la violenza omo-lesbo-bi-trans-fobica quotidiana. Il DDL infatti non prevede alcuna implementazione culturale, come i programmi di educazione alle differenze di genere, alla sessualità e all’affettività. E i 4 milioni di euro destinati dalla legge ai “centri per il sostegno delle vittime di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere” sono assolutamente insufficienti e non sono previsti corsi di formazione per tutto il personale nelle varie istituzioni

Il DDL poi include definizioni su orientamento sessuale, identità di genere, genere, sesso ambigue e spesso discriminatorie ed errate. Definisce le persone trans* con la parola “transessuali”, definizione non rappresentativa della molteplice esperienza trans* ed esclude altre identità (persone asessuali e non binarie) dalla protezione contro le discriminazioni.

Le aggressioni fisiche compiute da singoli individui che questa legge punisce sono solo la punta dell’iceberg; l’omo-trans-lesbo-bi-fobia è un problema strutturale della nostra società ed è principalmente di Stato: comincia nelle famiglie, cresce nelle scuole, e finisce nelle prigioni dove continua a propagarsi.

Per queste ragioni non crediamo che inasprire le pene o riempire le galere sia la soluzione ai nostri problemi. Le minacce di detenzione e le pene esemplari non sono mai reali soluzioni ai problemi sociali. Il sistema punitivo si rivolge troppo facilmente solo alle fasce sociali più svantaggiate. E recludere i corpi continua a essere la soluzione per togliere dalla vista le persone povere, mettere a tacere quelle che dissentono, escludere quelle, a vario titolo, irregolari. Un transfobico in galera non cancella l’omo-lesbo-bi-trans-fobia, un’esperienza dietro le sbarre, la privazione della libertà, non può rendere migliore né la società, né le persone che la sperimentano.

Contrastare la violenza eteropatriarcale è una lotta di tutti i giorni, perché la violenza è quotidiana e strutturale. Rilanciamo quindi e rivendichiamo oggi una battaglia che superi l’approccio legalitario/repressivo e combatta sul piano culturale e politico la violenza etero-patriarcale in tutti i settori della nostra società.

La nostra lotta è appena cominciata. Vogliamo una scuola dove vengano abbattute le barriere di genere, classe, razza, orientamento sessuale. Una scuola che educhi alle differenze di genere – sì, chiamatelo gender se volete: è insegnamento di consapevolezza e libertà, di rispetto di sé e degli altri. Vogliamo educazione sessuale e campagne di prevenzione e riduzione della violenza omo-lesbo-bi-trans-fobica. Vogliamo accesso anonimo e gratuito a screening e terapie per tuttx. Vogliamo centri antiviolenza autonomi e gestiti dal basso, con personale formato. Vogliamo consultori liberi dalle ingerenze della chiesa e ospedali liberi dagli obiettori, vogliamo case-famiglia e centri di rifugio per chi nella famiglia trova solo violenza e oppressione. Vogliamo frocizzare gli spazi cittadini e renderli sicuri con la nostra presenza, i nostri attraversamenti, i nostri corpi. La violenza è di Stato ed è strutturale. La soluzione non può che venire dal basso, attraverso l’azione diretta, l’auto-organizzazione e una traNsformazione radicale che coinvolga tutti, tutte e tuttu.

Per approfondimenti si veda:

https://filosottile.noblogs.org/post/2021/04/14/autorganizzazione-e-disobbedienza-contro-la-violenza-di-stato/

https://marciona.noblogs.org/post/2020/07/14/contro-la-violenza-molto-piu-di-una-legge/

 

LABORATORIO AUTOGESTITO LA MICCIA

VAGLI A SPIEGARE CHE È PRIMAVERA – CONOSCERE IL CARCERE PER ABBATTERLO. 3° Appuntamento

Domenica 16 Maggio ore 16 in Piazza Statuto – Asti.

Terzo incontro di lotta contro le prigioni: materiale informativo, performance e interventi sulla quotidianità del carcere.

STRETTI TRA 4 MURA

In carcere? Guarda che quelli stanno benone! Lo Stato ti mantiene e non devi lavorare, stai a letto tutto il giorno a guardare la tv! E poi tanto dopo poco tempo escono anche gli assassini.

Quante volte parlando del carcere sentiamo questi discorsi? Abbiamo sempre considerato la carcerazione qualcosa di lontano dalle nostre vite ma in quest’anno di pandemia ci siamo resi conto che stare sul divano a guardare la tv tutto il giorno non è un gran piacere e che le restrizioni alla propria libertà di movimento sono dopo poco tempo insostenibili. Non a caso proprio dall’inizio della pandemia sono notevolmente aumentati i tassi di suicidio e numerose persone hanno riportato sintomi depressivi ed elevati livelli di stress e ansia. 

Oggi, possiamo quindi cercare di comprendere meglio chi passa mesi, anni e decenni all’interno delle 4 mura della cella.

Ogni giorno subiscono i rumori assordanti dei blindi che sbattono, delle chiavi che sferragliano e delle urla incessanti. Ogni giorno consumano pasti che costano allo Stato non più di 4 euro al giorno per detenuto e in alternativa possono cercare di acquistare qualcosa con costi decisamente superiori a quelli che troviamo in un qualsiasi supermercato. Ogni giorno devono respirare la stessa aria stantia e umida che si mescola all’odore del sudore, del caffè e dei diversi piatti tipici di ogni popolazione presente. 

Ogni giorno la luce al neon peggiora la vista e tutto ciò che puoi osservare intorno sono sbarre ed espressioni serie. Ogni giorno sono privati di contatto fisico ad eccezione delle perquisizioni fisiche che spogliano la persona anche del più piccolo spazio intimo e personale. Ogni giorno posseggono solo un’ora all’esterno delle sezioni, sempre se il sovraffollamento e il personale in turno lo rendono possibile, definita ora d’aria. 

“Aria: che coraggio chiamarla aria; quattro mura brutte, grigie, fredde, spoglie ed in mezzo un casino di persone che camminano, avanti indietro, avanti indietro, i soliti discorsi, le solite facce e questa tensione, sopita come un gatto, la vedi, la senti, la tocchi, e speri che non si svegli, perché è come un barile di dinamite con un fiammifero sotto, sempre pronto ad esplodere, troppe persone, troppa gente ed allora il pallone, partite fatte a scaricare la tensione su quel povero pallone, partite cariche di rabbia, come se ci si giocasse la libertà”.

Ogni giorno devi cercare di essere il più possibile arrendevole con tutti per evitare pestaggi da parte del personale o degli altri detenuti e per evitare l’isolamento. Perché se ti va bene puoi condividere le tue mura con altre 2,3,4,6 persone, se ti va male puoi finire in una cella con le pareti lisce, senza vetri alle finestre, senza lavandino e sedie, con solo una branda priva di materasso. Questo è ciò che è successo ad un detenuto nel carcere di Asti nel 2017. Per due mesi gli stono stati razionati i pasti come punizione e veniva picchiato ripetutamente, più volte al giorno, fino a procurargli la frattura di una costola e diverse ecchimosi ed infine, prima di riportarlo in sezione gli venne strappato a mani nude il codino per farne un regalo ad un agente penitenziario. 

È proprio a causa di queste condizioni disumane che nel solo 2020 ci sono stati 61 suicidi, senza contare i tentativi falliti. Questa è la vera quotidianità del carcere, un’istituzione che ha come unico scopo reale quello di ghettizzare le persone considerate come scomode e diverse: un grande contenitore in cui raccogliere (e rimuovere) problematiche sociali che altrove non trovano adeguate risposte.

«Le prigioni italiane, così come avviene in tutta Europa, sono popolate non tanto di grandi criminali ritenuti responsabili di gravi reati, ma piuttosto di fasce estremamente marginali della popolazione per cui spesso devianza e criminalità (prevalentemente micro) rappresentano un’espressione di problematiche sociali che meriterebbero risposte altre. […]. Il profilo sociale di questi detenuti ci descrive persone perlopiù giovani o giovanissime con un basso livello di istruzione, che non hanno mai avuto un’occupazione lavorativa stabile e regolare e che spesso risultano privi di un’adeguata rete affettivo-familiare e sociale che funga da sostegno nelle situazioni critiche; per queste persone le scelte devianti rappresentano in qualche caso una necessità di sopravvivenza, ma più spesso l’espressione di un disagio sociale che potrebbe essere contenuto con strumenti ben più efficaci di quello penale» (Rapporto Antigone, 2001, p.17). 

Possiamo quindi continuare a fregarcene di questa parte di popolazione che ad oggi è formata da circa 55.000 persone o iniziare a conoscere in modo consapevole e più responsabile il posto in cui vivono, i danni che subiscono e quante irrisorie siano le possibilità, una volta scontata la pena, di poter vivere una vita diversa.  Forse, dopo esserci lamentati per mesi di una vita che assomiglia solo lontanamente alla loro quotidianità possiamo comprendere meglio o almeno possiamo provare a non ricadere nuovamente negli ormai triti e ritriti luoghi comuni sul carcere e sulle vite che lo subiscono. 

E forse a partire da questo possiamo immaginare che cosa voglia dire vivere così per dieci giorni, dieci mesi, dieci anni. A cosa serve passare le proprie giornate in queste condizioni? Che cosa si può imparare in un simile contesto? Come si può pensare che tale segregazione sia una soluzione reale ai problemi sociali? La violenza e l’emarginazione dell’istituzione carceraria non creano altro che ulteriore violenza ed emarginazione. E questo perché le persone che stanno “lì dentro” appartengono alla società e a lei dovranno tornare. La soluzione non può essere la loro ghettizzazione, perché questo non porta né quella rieducazione che viene dichiarata come obbiettivo né tanto meno sicurezza. Per tali ragioni è oggi più che mai necessario immaginare una società diversa che sappia fare a meno di questi luoghi di abbruttimento e di prevaricazione. Che sappia fare a meno di queste macchine di esclusione e di sofferenza che non si possono in alcun modo riformare ma solo abbattere una volta per tutte. Come si abbatterono i manicomi: istituzioni totali altrettanto mostruose e degradanti, le cui mura caddero solo dopo lunghe lotte e nonostante il timore instillato da chi voleva la malattia mentale imprigionata, isolata e punita.

I veri criminali siedono in parlamento e nei consigli di amministrazione. Sono loro a costringere migliaia di persone alla fame e alla cosiddetta “delinquenza”. Un’altra società, che sappia fare a meno di prigioni e galere, che si fondi sull’uguaglianza, la solidarietà e il mutuo appoggio è possibile. E sta a noi batterci per realizzarla.

LABORATORIO AUTOGESTITO LA MICCIA

Micheal Foucault E Il Gruppo Di Informazione Sulle Prigioni

Venerdì 14 maggio ore 21

Vagli a spiegare che è primavera. secondo appuntamento di informazione e lotta contro le prigioni.

Con Salvo Vaccaro.

https://us02web.zoom.us/j/88203519909
ID riunione: 882 0351 9909

L’8 febbraio 1971 Foucault annuncia la creazione del Gruppo d’informazione sulle prigioni (GIP). Il Gruppo ha sede presso l’abitazione dello stesso Foucault e raccoglie intellettuali, ex-detenuti, familiari di detenuti e militanti politici di varia estrazione. Il Gruppo rifiuta nettamente la possibilità di “migliorare, addolcire, rendere più sostenibile” il carcere. L’obbiettivo è quello di dar voce ai detenuti attraverso inchieste che “accrescano l’intolleranza verso il carcere e ne facciano un’intolleranza attiva”, nella consapevolezza che “la prigione inizia ben prima dei suoi portoni”. Da questa attività militante nascerà nel 1975 “Sorvegliare e punire”, uno dei libri più noti di Foucault: un testo fondamentale per comprendere la nascita della prigione e le dinamiche di potere che la sostengono, ma anche per immaginare forme di resistenza da opporgli. Per creare una società senza più prigioni che, “al posto di rispondere alla delinquenza con la repressione, ne curi le cause”.

incontrontro organizzato da

– Lab. Autogestito la Miccia
– Laboratorio Anarchico Perlanera
– Federazione Anarchica Torinese

NOME DI BATTAGLIA “NEDO”

In via Mazzini n. 6, proprio qui vicino, visse gli ultimi anni della sua vita il partigiano Giacomo Tartaglino, nome di battaglia “Nedo”. Nato nel 1878 a Mongardino fu in gioventù ferroviere e sindacalista. Allo scoppio del Primo conflitto mondiale aiutò centinaia di disertori a espatriare in Svizzera, per sfuggire a una carneficina che in nome della patria farà milioni di morti, feriti, mutilati e sfollati. Disertore egli stesso, colpito da una condanna a morte per tale attività di espatrio clandestino, scappò in Germania. Qui prese parte al tentativo rivoluzionario dei Consigli di Baviera, represso nel sangue dai corpi franchi. Ritornato ad Asti visse braccato dal regime fascista, più volte arrestato, perquisito e fermato. Una sorveglianza estenuante e continua che lo costrinse a cambiare moltissime volte domicilio e lavoro. Nel 1944, a 65 anni,Tartaglino si unisce ai partigiani garibaldini. A luglio è nel Canavese, in montagna con la brigata “Saverio Papandrea”. Nel settembre passa alla 100°, distaccamento Corio e nell’inverno prende parte ai violenti combattimenti che si svolgono contro le forze rastrellanti nazi-fasciste in Val Tiglione. Nel dopoguerra aderirà alla neonata Federazione Anarchica Italiana (FAI), facendosi promotore del Gruppo Anarchico “Pietro Ferrero” con sede proprio qui, presso la sua abitzione. Morirà nel 1961 ad Asti, in condizioni di vita modestissime, senza mai rinnegare i propri ideali libertari e svolgendo fino alla fine il mestiere di calzolaio.

LA MEMORIA DEI PARTIGIANI VIVE NELLE LOTTE

Nel ricordare la storia di Tartaglino vogliamo ricordare le vite di quanti/e non si limitarono alla sola lotta contro il fascismo. Le vite di tutt* quell* che si impegnarono in un progetto rivoluzionario di trasformazione radicale della società. Vogliamo qui oggi ricordare un antifascismo che non si sentiva esaurito negli esiti della democrazia e della Costituzione. Un antifascismo che voleva edificare un mondo nuovo di uomini e donne liber*, senza padroni. Senza più sfruttati nè sfruttatori, senza oppressioni di genere, senza confini. Quest* antifascist* sapevano bene che il fascismo non sarebbe finito con la Liberazione ed oggi la loro lezione appare quanto mai attuale. Oggi che assistiamo al diffondersi di ideologie sfacciatamente razziste, autoritarie, escludenti, populiste. Ideologie che spesso incrociano teorie del complotto non molto diverse da quelle antisemite che circolavano durante il fascismo. Mentre i politicanti soffiano sul fuoco della guera tra poveri, sempre più ci si affida ad irrazionali spiegazioni di un mondo che non si riesce più a comprendere e di fronte al quale ci si sente impotenti. Frustrati da condizioni di vita sempre più degradanti, diventa facile credere che ci sia una grande cospirazione agita da forze oscure e che la colpa sia degli ultimi arrivati, dei diversi e di chi è costretto a vivere nell’emarginazione. In tale quadro ogni forma di solidarietà tra oppressi viene spazzata via e l’unica cosa che rimane è l’essere italiani, bianchi, cristiani, legati alle tradizioni, ognuno al proprio posto, strettamente ancorato al ruolo assegnato: gli uomini machi e violenti, le donne remissive e in casa a pulire e badare ai figli. Un sistema oppressivo e mortifero che sta riacquistando fascino. Un sistema basato sul razzismo, l’identità nazionale, la cultura machista e il tradizionalismo. Insomma tutti gli ingredienti che scatenarono il nazi-fascismo ieri e che continuano a minacciare le nostre vite oggi. Questa minaccia, di fronte al netto peggioramento delle condizioni di vita dovute alla pandemia, è oggi più che mai seria. Perchè da tutto questo all’invocazione di un uomo forte, di un duce che sappia sistemare tutto il passo è breve. Partigiani come Tartaglino sapevano che per sconfiggere il fascismo una volta per tutte non sarebbe stato sufficiente invocare gli articoli di una Costituzione. Per abbattere il fascismo è necessario lottare quotidianamente contro le condizioni che lo rafforzano e che lo rendono possibile: le ingiustizie economiche generate dal sistema economico, i confini, la cultura patriarcale di preti e politicanti, il nazionalismo che ci vorrebbe tutt* “pronti alla morte”, il militarismo che riempie di divise le nostre strade, il complottismo che ci fa sentire pedine impotenti. La memoria dei partigiani come Tartaglino non è dunque nelle stantie celebrazioni istituzionali ma soffia forte nelle nostre lotte: a fianco dei lavoratori che si auto-organizzano contro lo sfruttamento imposto dai padroni, contro il razzismo e le frontiere, a fianco delle identità erranti e non conformi, insieme ai movimenti LGBTQI+ e transfemministi, contro tutti gli eserciti e a difesa dei territori, contro progetti criminali come il TAV. I nostri nemici non agiscono attraverso oscuri e inafferrabili complotti. Oggi come allora sono sempre gli stessi: sono i padroni che ci sfruttano in nome del profitto. Sono i governi che impongono opere devastanti e inutili con la militarizzazione, drenando soldi pubblici, distruggendo la sanità e gestendo criminalmente la pandemia. Contro di loro, oggi come allora, abbiamo le stesse armi: la solidarietà, il mutuo appoggio, l’auto-organizzazione, l’azione diretta.