Meditazione quasi zen per momenti hardcore – PARTE 3: “18 maggio”, poesia letta dall’autrice Alice Diacono. Dal volume “Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento”, Battaglia Edizioni, Imola 2019.
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Approfondimenti e comunicati
Riflessioni antispeciste sul coronavirus
Un virus salterino
Il SARS-Cov-2, il virus che nell’uomo causa la malattia nota come Covid-19, ha compiuto un salto di specie dal pipistrello all’uomo, forse attraverso un ospite intermedio. La stessa cosa è già successa con la SARS nel 2003, la MERS nel 2012, l’Ebola, la suina H1N1 e l’aviaria H5N1, Zika, HIV… tutte malattie portate da virus dopo un salto di specie. (1)
Non c’è da stupirsi che noi animali umani rappresentiamo un’occasione preziosa per molti tipi di virus e batteri. Siamo grandi animali che vivono in condizioni di sovraffollamento nelle città, ci muoviamo moltissimo in tutto il pianeta costituendo un vettore di infezione globale perfetto anche a partire da un unico focolaio isolato. Quanto alle occasioni, non mancano di certo. Entriamo continuamente in contatto con altri animali ospiti di virus e batteri: allevamenti, macelli e mercati per gli animali cosiddetti “da reddito”, mentre sul fronte distruttivo della deforestazione incrociamo il nostro percorso con un’enorme varietà di animali selvatici invadendo il loro habitat. (2)
Cos’è l’antropocentrismo, e perché un virus dovrebbe aiutarci a metterlo in discussione?
L’antropocentrismo è l’idea che noi esseri umani siamo al centro e al di sopra di tutto il resto dell’esistente, idea che crea una divisione binaria tra l’animale uomo e il resto degli animali. Naturalmente, in questa divisione noi esseri umani ci assegniamo il posto al vertice di questa scala gerarchica, e da questa posizione esercitiamo il nostro privilegio sfruttando gli altri animali, scacciandoli e lasciandoli morire quando vogliamo il loro territorio, e smembrandone a centinaia di miliardi per l’industria di carne e derivati come latticini e uova. L’antropocentrismo ci ha illus* di essere intoccabili e autosufficienti, di poter dominare sull’intero pianeta, ignorando e calpestando l’insieme delle relazioni che ci legano al resto della biosfera. Tra le altre cose, anche questa epidemia ci dimostra che non è così: il confine tra le specie è permeabile, per i virus così come per le relazioni, la comunicazione, i sentimenti. Se possiamo imparare qualcosa da questo casino, perché rinunciare? Abbiamo un enorme bisogno di rimettere in discussione il ruolo che la nostra specie si è illusa di avere, e di cambiare il modo in cui ci relazioniamo con le altre specie viventi. Questa è l’ennesima buona occasione che ci capita per farlo.
Altrochè laboratori segreti, basta la zootecnia.
La zootecnia, con il suo apparato di produzioni agricole per i mangimi, di allevamento intensivo e di macellazione industriale, è l’unico metodo possibile per produrre cibo di origine animale a sufficienza per soddisfare la richiesta del mercato. Chi sostiene che bisognerebbe passare ad un allevamento estensivo, allo stato brado, “naturale”, sappia che vorrebbe dire un mondo in cui i cibi di origine animale sono appannaggio unicamente di un’elite ricca o così rari da costituire un’eccezione più che una costante nell’alimentazione umana. (3) La coltivazione di mangime impiega enormi risorse idriche, causa deforestazione sulla terra e soffoca gli oceani con l’ipertrofia delle alghe causata dall’immissione nei corsi d’acqua di concimi azotati. (4) Tutto questo per permettere all’industria degli allevamenti di compiere orrori infiniti sulla pelle di 150 miliardi di animali ogni anno: ammassati in luoghi sporchi, malati e feriti, vengono imbottiti di antibiotici e antiparassitari per restare vivi abbastanza a lungo da raggiungere un peso profittevole sul mercato. Queste condizioni sono lo scenario perfetto che favorisce lo sviluppo di nuovi patogeni. Batteri resistenti agli antibiotici, che uccidono già 700.000 persone ogni anno nel mondo e che secondo le stime diventeranno la prima causa di morte nel 2050 con 10 milioni di vittime all’anno (insomma, non dovremo aspettare a lungo per la prossima emergenza sanitaria che prolunghi all’infinito questo stato di eccezione) (5). E virus, che hanno modo di replicarsi in numero enorme. Questo significa che statisticamente, prima o poi, qualcuno di questi riesce a mutare per compiere il famoso salto di specie verso l’uomo – che è a continuo contatto con gli animali detenuti in cattività.
L’enorme portata della sofferenza e dello sfruttamento animale riesce a indurre un cambiamento di prospettiva solo in poche persone, e probabilmente non sarà l’ennesima zoonosi a fare di meglio. Ma non rinunciamo a cogliere questa ulteriore occasione di mettere in dubbio il paradigma specista e antropocentrico della nostra società: non possiamo affrontare alcun discorso di salute pubblica se non ripensiamo al modo in cui trattiamo gli altri animali, e al motivo per cui li trattiamo così. Gli allevamenti sono luoghi di orrore che vanno chiusi, gli altri animali hanno il nostro stesso diritto alla libertà e all’autodeterminazione, e questa potrebbe essere anche l’unico modo di evitare una catastrofe sanitaria e climatica. Cosa ci serve ancora per cambiare?
Nei panni dell’Altro.
Da alcune settimane stiamo sperimentando una quotidianità diversa, alienante e stressante. Siamo stat* privat* della libertà di movimento che avevamo prima, della possibilità di agire il nostro tempo liberamente, di incontrarci, di stare all’aria aperta. Che vita è? La più immediata riflessione che possiamo fare ci porta a provare un forte senso di solidarietà con chi vive sempre queste restrizioni: carcerat*, reclus*, istituzionalizzat*, persone disabili e non autosufficienti costrette a vivere in un’abitazione per mancanza di mezzi adeguati. Ma tendiamo lo sguardo oltre, e basta poco per accorgerci che è esattamente la stessa vita a cui sono condannati buona parte dei nostri animali domestici, in verità i più fortunati, quelli che “stanno bene”. Abbiamo da mangiare, da bere, un letto, non dovremmo essere felici così? Chi divide la casa con cani e gatti, pesci di acquario, rettili o uccelli in gabbia, ha un’occasione unica per capire che cosa significa trascorrere l’esistenza tra quattro mura, uscire solo pochi minuti al giorno per una distratta passeggiata, o osservare malinconicamente lo scorrere della vita fuori dalle finestre. Una vita che resta oltre la nostra portata, anche se abbiamo la ciotola piena. Tutti gli animali sono mossi dagli stessi desideri basilari che muovono anche noi, desiderano essere protagonisti delle proprie vite, delle proprie giornate, esprimere le proprie inclinazioni, essere liberi. Facendo uno sforzo per porci nei loro confronti con curiosità e imparare cosa significa essere vivo per un gatto o un cane, poniamo le basi per un’esperienza arricchente e di reciproco rispetto. Non sarebbe male se da questa esperienza potessimo arrivare a rivoluzionare il nostro rapporto con gli altri animali anche nelle nostre relazioni affettive domestiche, smettendo di pensare agli animali domestici come animali “da compagnia”, che servono per darci affetto e attenzioni in cambio di cibo e coccole, e iniziando a vederli come sono realmente: individui unici e compagni animali con cui costruire un rapporto di reciprocità.
Difficoltà nei rifugi.
Questa epidemia e le misure di sicurezza sanitarie che sono state attuate stanno mettendo in grave difficoltà i rifugi per animali liberati, i canili e i gattili. Le adozioni sono ferme, gli eventi di autofinanziamento anche, ma le esigenze degli animali ospitati non cambiano. Cibo e spese veterinarie vanno pagate. Chi lavora in queste strutture sta continuando, al pari di altre categorie, ad esporre se stess* e l* propr* car* al rischio di contagio per assistere gli animali. Le donazioni di cibo, coperte, antiparassitari e anche di denaro, quando si può, sono sempre benvenute e necessarie per non lasciare indietro quelli che sono sempre, e ancora a lungo saranno, gli ultimi degli ultimi.
Contro ogni dominio, ogni gerarchia, per una solidarietà universale e senza confine!
Note:
(1) https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/dalla-peste-coronavirus-come-pandemie-hanno-cambiato-storia-dell-uomo/d71a9986-6dfd-11ea-9b88-27b94f5268fe-va.shtml
(2) https://www.vegolosi.it/news/qual-e-il-collegamento-fra-il-coronavirus-e-gli-allevamenti-intensivi/
(3) https://www.onegreenplanet.org/news/chart-shows-worlds-land-used/ Nel mondo il 77% percento delle terre agricole sono destinati a pascolo e coltivazione di mangimi, producendo solo il 17% delle calorie e il 33% delle proteine dell’intera alimentazione umana. Nell’unione europea, il 70% della terra agricola è usata per l’alimentazione animale. Eppure solo il 9% della carne bovina e il 30% della carne ovina al mondo è prodotta da pascolo. http://www.fao.org/3/X5303E/x5303e05.htm#chapter%202:%20livestock%20grazing%20systems%20&%20the%20environment Evidentemente è impossibile mantenere l’attuale produzione di carne, latte e uova con il pascolo, per non contare che proprio lo sfruttamento eccessivo del pascolo è una delle principali cause di desertificazione. http://www.ciesin.columbia.edu/docs/002-186/002-186.html
(4) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2367646/
(5) https://ilfattoalimentare.it/resistenza-agli-antibiotici.html
LETTURE #6 – TRATTA DA WASLALA DI GIOCONDA BELLI
Waslala. Memoriale dal futuro, Gioconda Belli.
Nuove tecnologie e autocontrollo digitale
Esercito per le strade, droni, possibilità di tracciamento degli smartphone, autosorveglianza: queste sono solo alcune delle idee al vaglio, da alcune settimane, nella lotta contro il coronavirus. Una lotta che, in favore del rispetto delle regole, è stata in grado di stimolare i desideri di controllo insiti, più o meno inconsciamente, nei cittadini stessi. L’idea sarebbe quella di introdurre una norma di legge, o un decreto, che consenta, in deroga alla normativa sulla privacy, di svolgere verifiche con l’identificazione dei singoli utenti telefonici; la disposizione avrebbe una funzione soprattutto di deterrenza e varrebbe per un tempo limitato. La proposta di queste risoluzioni però ha sollevato diversi dibattiti circa la possibilità del protrarsi delle operazioni stesse; è infatti vero che potrebbero prolungarsi, o addirittura ri-attuarsi nel momento in cui si presenterà un’altra emergenza, sanitaria ma non solo, con serie ripercussioni sulla privacy dei cittadini. Il manifestarsi di un nuovo stato di eccezione in futuro potrebbe essere utilizzato come pretesto per colpire, ancora una volta, la libertà dei singoli: emergenza sanitaria, terrorismo, chi può dire quale sarà la causa della prossima quarantena, e quali le scelte da parte di un governo che ha già dimostrato di potersene fregare delle procedure democratiche per la convalida dei diversi decreti? Questa emergenza ci ha dimostrato come sia facile, anche all’interno di uno stato “democratico”, trovare delle scappatoie per emanare decreti senza il controllo da parte degli organi statali responsabili della salvaguardia della democrazia stessa, sollevando non poche preoccupazioni anche tra i sostenitori più accaniti di tale sistema.
In tema di sviluppo delle nuove tecnologie in aiuto all’emergenza coronavirus, in Cina una situazione analoga si è già vissuta grazie a un’app che traccia gli spostamenti degli utenti e permette loro di segnalare i luoghi che hanno visitato, le persone che hanno incrociato, per poter tracciare un filo tra i cittadini e tenere sotto controllo i contagi. “Così big data e intelligenza artificiale stanno battendo il coronavirus”; “Coronavirus: come la Cina lo ha fermato con la tecnologia e cosa può imparare l’Italia”: questi sono solo alcuni dei titoli che le testate giornalistiche italiane riportano in queste settimane, acclamando a gran voce il controllo attraverso la tecnologia che, già nella stessa Cina, in passato, si è dimostrata essere frutto di una pesante dittatura informatica.
Ma l’auto-controllo tanto apprezzato (che passerebbe dal tracciamento delle celle al controllo tramite GPS e app), che renderebbe buoni cittadini chi sceglie di praticarlo, ha più di un risvolto negativo: è il risultato dell’idea diffusa, ma che denota una conoscenza troppo superficiale dei mezzi, che la tecnologia possa essere usata fine a se stessa. I sostenitori della trasparenza radicale sbandierano l’estinzione della sfera personale in favore della pubblica onestà, ritenendo che una maggiore visibilità ci renda persone migliori; credono inoltre che una maggiore trasparenza renda automaticamente la società più tollerante: essere differenti equivale ad un’anomalia del sistema, forse sintomo di corruzione morale. Questa vigilanza costante operata dai nuovi padroni digitali fa girare molto denaro grazie al complesso delle informazioni che vi ruotano attorno, che regge a sua volta l’industria dei meta-dati. I nuovi padroni digitali costruiscono le infrastrutture rendendo così possibile dirigere in maniera eterogenea le masse, instillando desideri indotti e stimolando a fornire sempre più informazioni: siamo noi che rendiamo possibile la personalizzazione di massa. D’altronde le piattaforme social sono state create con l’obiettivo del profitto, non con l’idea di creare uno spazio globale di dibattito culturale. Il prezzo della libertà digitale è la fine della privacy[1].
Queste teorie di capitalismo digitale aiutano a comprendere come sia facile per i padroni digitali ottenere le informazioni necessarie dai propri utenti, e divengono più che mai attuali in questo periodo di caccia all’untore. I cittadini, ignari del funzionamento di tali tecnologie, si rendono partecipi di un sistema di sorveglianza, o peggio, di auto-sorveglianza, ostentato come utile o addirittura essenziale per la salute pubblica. Saper usare queste tecnologie in modo critico diventa fondamentale per non rischiare di essere assoggettati al potere per loro tramite, in un futuro in cui l’emergenza potrebbe non essere più l’eccezione, ma la regola.
Sia che queste risoluzioni vengano attuate, sia che vengano scartate definitivamente, è necessario tenere acceso il dibattito sull’uso delle nuove tecnologie in relazione ai possibili riscontri sulla privacy: le tecnologie che usiamo quotidianamente, anche quelle apparentemente più semplici come i social network, vanno conosciute, vanno compresi i meccanismi che ne stanno alla base e i paradigmi che li regolano per evitare che possano, un giorno (se già questo non stia accadendo), essere usate contro gli utenti stessi da chi detiene il potere. In questo clima emergenziale, va innanzitutto ricordato che la salute non si combatte con la sorveglianza e il controllo, o peggio, l’auto-controllo, ma con la presa di coscienza da parte del singolo individuo e con atti di responsabilità nei confronti dell’altro.
[1] Ippolita, La Rete è libera e democratica. Falso! cit., p. 21
CONSIGLI DI LETTURA #1
Consigli di lettura libertari dal @cdlfelix e L.A. MICCIA!
Amedeo Bertolo, “La gramigna sovversiva”, 1979, in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Eléuthera, 2017.
LETTURE #5 – FILASTROCCHE PER I CUCCIOLI DEL COSMO, DI FILOMENA FILO SOTTILE
Lettura a cura del L.A. Miccia tratta da “Filastrocche per i cuccioli del cosmo” scritta da Filomena Filo Sottile.
Musiche: Paolo Longhini.
Un racconto per Eddi e tutte gli altr combattenti intergalatticu: https://filosottile.noblogs.org/post/2020/03/18/filastrocche-per-i-cuccioli-del-cosmo-un-racconto-per-eddi-e-tutte-gli-altr-combattenti-intergalatticu
LETTURE #4 – ALICE DIACONO – Cose che se non ho imparato a fare…
Meditazione quasi zen per momenti hardcore – parte 2: “Cose che se non ho imparato a fare entro i ventotto anni non imparerò a fare mai più”, poesia letta dall’autrice Alice Radice Diacono. Dal volume “Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento”, Battaglia Edizioni, Imola 2019.
Qui il testo direttamente sul blog dell’autrice! https://iltempodiunbidet.wordpress.com/2015/09/09/cose-che-se-non-ho-imparato-a-fare-entro-i-28-anni-non-imparero-a-fare-mai-piu/comment-page-1/
LETTURE #3 – FEDERICO – UNA FAVOLA DI LEO LIONNI
Perché una battaglia non può sacrificarne un’altra
24 marzo 2020: “Padova, in quarantena col marito violento, massacrata a colpi di martello: è grave”.
Questa è solo l’ultima notizia di femminicidio di cui veniamo a conoscenza. La colpa? Il patriarcato: il virus più letale per quanto riguarda l’autodeterminazione delle donne. Queste settimane di isolamento e auto-quarantena da covid-19 non risparmiano la libertà delle donne vittime di violenza, costrette a rimanere chiuse in casa con i propri carnefici. In Italia, ogni 72 ore viene uccisa una donna. Negli ultimi anni i dati mostrano una diminuzione degli omicidi, mentre i femminicidi sono in aumento; i carnefici sono, per la maggior parte, mariti, partner o ex partner. Queste donne vengono uccise perché non si piegano, perché sono e vogliono rimanere libere.
Quest’anno l’8 marzo molt* di noi lo hanno festeggiato in casa. La lotta transfemminista che da qualche anno a questa parte riempie le strade e le città con i suoi colori e le sue voci, quest’anno ha dovuto fare i conti con i decreti che ci costringono nelle nostre case. La volontà iniziale di non farsi fermare in un giorno così importante è andata velocemente ad affievolirsi nel panico generale che ci ha obbligat* a isolarci per evitare il contagio nostro e dei nostri cari. Ma il famoso hashtag #restateacasa che gli abitanti dei social network e le celebrità si prodigano di diffondere il più possibile, non tiene conto di tutte quelle individualità che in casa trovano il proprio terreno di scontro: è proprio all’interno delle mura domestiche che avvengono la maggior parte delle violenze di genere e dei femminicidi. In queste settimane di emergenza non bisogna dimenticare che tante donne (sempre di più) sono costrette a vivere 24 ore al giorno al fianco dei propri potenziali assassini. L’isolamento è una delle caratteristiche più comuni delle relazioni abusanti, ed è già dimostrato come la violenza domestica aumenti durante i periodi di vacanza dal lavoro. Per tante donne andare a lavoro o poter semplicemente uscire di casa significa poter sfuggire anche solo per poco alle dinamiche di violenza domestica e di dominio nelle quali vivono tutti i giorni, e al momento questo non è possibile. L’imposizione dell’isolamento non fa che amplificare il rischio a cui queste persone sono esposte. Restare a casa e condividere costantemente lo spazio con i propri aggressori per molte donne non è l’opzione più sicura, e crea anzi le circostanze in cui la propria incolumità viene ulteriormente compromessa.
Senza possibilità di uscire, per tutte queste donne chiedere aiuto diventa sempre più difficile. Inoltre, in questa situazione emergenziale, le donne si vedono caricate di un ulteriore peso. La chiusura delle scuole e dei centri diurni per gli anziani o per le persone non autosufficienti sta aumentando infatti gli oneri di lavoro domestico e di cura non retribuito, che continua a ricadere principalmente sulle donne. I settori di lavoro con la più alta esposizione al virus poi sono principalmente femminili: le donne rappresentano il 70 per cento del personale nel settore sanitario e sociale a livello globale. All’interno di questo settore esiste un ulteriore divario retributivo medio di genere del 28 per cento.
Se le forze di polizia affermano con fierezza che i furti nelle città sono in diminuzione in queste settimane, i numeri di violenze domestiche aumentano di giorno in giorno; li chiamano “litigi familiari”, ma a perdere sono ancora una volta le donne. In Italia, da quando è iniziata l’emergenza coronavirus c’è stato anche «un calo» nelle denunce per maltrattamenti. In Cina questi effetti “secondari” della pandemia a seguito dei blocchi imposti si sono già verificati: dal 6 marzo, secondo un’organizzazione non governativa cinese che lavora con le donne, il numero totale di casi di violenza domestica nella prefettura di Jingzhou, nella provincia di Hubei, è salito a oltre 300. E a febbraio il numero di casi è raddoppiato rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Secondo uno degli attivisti che ha fondato l’ong, «l’epidemia ha avuto un impatto enorme sulla violenza domestica».
In Ohio e Texas le cliniche che praticano aborti dovranno sospendere gli aborti chirurgici “non essenziali”, al fine di tenere disponibili le forniture mediche per far fronte all’epidemia. La misura ha spinto i gruppi anti-aborto a chiedere che il divieto venga esteso a livello nazionale.
Anche in questo caso le conseguenze sulle donne dell’emergenza coronavirus non sono dunque confinate in una determinata parte del mondo ma tendono a investire tutto il globo, mostrando in tutta evidenza quanto il patriarcato sia radicato all’interno del tessuto sociale e quanto una situazione emergenziale possa rendere tale dominio opprimente.
In questo periodo emergenziale non dobbiamo smettere di lottare affinché le storie di queste donne non vengano oscurate dalla battaglia contro il covid-19: la lotta non va in quarantena.
Fonti:
https://www.ilpost.it/2020/03/17/il-coronavirus-e-la-violenza-domestica/
https://ilmanifesto.it/in-ohio-e-texas-aborto-vietato-non-essenziale/
UN MONDO DIVERSO
Nel settembre del 2019 15 esperti del Global Preparedness Monitoring Board (GPMB), nominati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), stilarono un documento intitolato “Un mondo a rischio” (https://apps.who.int/gpmb/assets/annual_report/GPMB_annualreport_2019.pdf ). In apertura di tale report si legge: “se è vero che «il passato è un prologo» per il futuro, allora esiste una reale minaccia di pandemia in rapido movimento e altamente letale da un patogeno respiratorio che ucciderà tra i 50 e gli 80 milioni di persone e cancellerà circa il 5% dell’economia mondiale. Una pandemia globale su tale scala sarebbe catastrofica, creando un caos diffuso. Il mondo non è preparato”.
La pandemia esplosa in queste settimane era già stata largamente annunciata ed era chiaro come le strutture esistenti non sarebbero state in grado di sopportarne il peso. Che cosa hanno fatto, a fronte di questo, i governi? Assolutamente nulla.
Che cosa stanno facendo ora? Con un grave ritardo e senza alcun serio coordinamento a livello quanto meno europeo, si sono prese iniziative le cui conseguenze (tanto a livello sanitario che a livello sociale) saranno da valutare nel medio e lungo periodo.
Il consiglio dei ministri italiano ha messo in atto ordinanze amministrative e decreti legge pesantemente restrittivi per la libertà dei singoli, senza alcun passaggio alle camere, senza alcun dibattito parlamentare, in nome della necessità di operare con urgenza.
Questi fatti ci rendono palesi almeno due dati fondamentali. In primo luogo l’inefficienza dei governi, i quali lungi dal tutelare in modo lungimirante i propri cittadini, hanno criminalmente fatto prevalere logiche del tutto estranee a quelle del benessere delle popolazioni. Questi organismi, quasi universalmente riconosciuti come necessari per la soddisfazione anche dei bisogni sanitari, hanno qui mostrato tutta la loro incapacità di tenere conto delle necessità reali e della salute delle persone.
In secondo luogo, le decisioni prese a livello istituzionale, ci mostrano ancora una volta come negli stati democratici (così come in ogni altra istituzione governativa) la sovranità non stia nelle mani del popolo che vota, bensì in quelle di chi è in grado di decidere sullo stato di eccezione. Sovrano non è necessariamente chi è stato eletto ma chi – in un dato momento – può stabilire quale sia una situazione di necessità e che cosa si debba fare in tale frangente. Sovrano è oggi chi può, in nome della sicurezza (dalle malattie, dal terrorismo…) sospendere la legge e i diritti civili, controllando e mobilitando le forze armate. Tali sospensioni della legge, oggi accettate in nome della salute pubblica, rischiano in futuro di divenire pericolosi precedenti per la privazione dei più elementari diritti individuali. Non si tratta qui di oscuri complottismi ma della comprensione dello scollamento esistente tra finalità dichiarate e conseguenze ottenute. Di come cioè un dispositivo messo in atto per un obbiettivo chiaramente identificabile (il contenimento del contagio), possa realizzare una serie di pratiche di controllo e di restrizione della libertà individuale. Tali pratiche coercitive diventano un bagaglio a cui attingere, un’attrezzatura spendibile in altri contesti che potranno di volta in volta essere definiti come emergenziali.
Di fronte a tutto questo si rende, ora più che mai, urgente la progettazione di una società che faccia a meno delle istituzioni statali, a conti fatti inutili nella difesa della nostra salute e pericolose rispetto all’esercizio delle nostre libertà. Tale progettazione utopica deve fungere da orizzonte di riferimento per una lotta concreta e quotidiana, che non si accontenti di piccole conquiste ma che realizzi una partecipazione diretta, collettiva e orizzontale alle decisioni che ci riguardano. Che sappia mettere in atto forme di organizzazione sociale non autoritarie e non infantilizzanti, dove sia stimolata la volontà di autonomia e di ragionamento individuali. Forme di autogestione, decentralizzate e federate, dove ognuno sia trattato da persona responsabile e artefice della propria esistenza, senza il bisogno di invocare le “soluzioni finali” di salvatori o di messia presunti onnipotenti.
Un mondo diverso, oggi più che mai, non è solo possibile ma necessario.