NON SONO MELE MARCE

Presidio anticarcerario 2 luglio.

MELE MARCE?

Sul web corrono veloci le immagini agghiaccianti del pestaggio punitivo avvenuto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, come atto di vendetta dopo la rivolta da parte dei detenuti nel mese di Aprile in piena pandemia. Quasi contemporaneamente escono le immagini e la storia di un’agressione violentissima subita da dei ragazz* non bianch* a Milano, sempre da parte della polizia.

Un fiume di soprusi e violenza che si ingrossa di più ogni giorno che passa e tutto questo all’avvicinarsi del ventennale del G8 di Genova, dove la polizia uccise Carlo Giuliani, picchiò e torturò migliaia di persone.

Riguardo ai fatti di Santa Maria Capua Vetere la risposta da parte dello Stato sembra essere esemplare e celere: 52 misure cautelari, sospensioni e incarcerazioni. A cosa servirà tutto questo? Ben poco. Queste azioni legali serviranno solo a sostituire il corpo della polizia penitenziaria di quella sezione creando ancora di più un clima di tensione tra detenuti e guardie, perchè il ricordo e le ferite di quella notte non passeranno facilmente.

Dopo una prima ondata di indignazione che ha attraversato giornali e coscienze, la narrazione proprosta è ritornata ad essere sempre la stessa: sono mele marce, anomalie, ingranaggi arrugginiti di un meccanismo di per sé giusto ma che ha bisogno di una bella oliata e di maggiore controllo.

Ciò che è successo però non è un’eccezione ma la regola. La violenza fa parte della quotidianità delle carceri, è il seme da cui nasce questa istituzione. Privare le persone della propria libertà e rinchiuderle tra quattro mura in cui solo chi ha la divisa detiene il potere non può che portare a metodi e pratiche violente. Continueremo a denunciare l’atrocità e l’inutilità di questi luoghi che hanno l’unico scopo di ghettizzare ed annullare le persone considerate indecorose e scomode per la società.

Il carcere non si può addolcire, il carcere non può essere riformato. L’unica soluzione è abbatterlo e trovare risposte adeguate alle situazioni di emarginazione e criminalizzazione.

Contro tutte le galere e contro tutte le violenze poliziesche. Per un mondo fondato sull’uguaglianza, il mutuo appoggio, la solidarietà. Non sono mele marce: è la pianta che è da estirpare. Non sono casi isolati: è il sistema sociale che deve essere cambiato alla radice

Volantino pdf

Comunicato del Laboratorio Autogestito La Miccia sulla prima assemblea al Bosco dei Partigiani

Ieri eravamo presenti alla prima assemblea al bosco dei partigiani. Abbiamo ritenuto importante esserci per rimarcare il fatto che quel luogo non è completamente abbandonato: infatti noi come Laboratorio Autogestito insieme a molte altre persone e realtà in questi anni abbiamo riempito il boschetto con numerose iniziative. Negli ultimi tre anni abbiamo usato la zona dell’anfiteatro per ospitare reading di poesia, pranzi popolari, chiacchierate transfemministe, spettacoli teatrali per grandi e anche per i tant* bambin* presenti agli eventi, esibizioni musicali e mostre di artisti locali. Abbiamo sempre organizzato tutto questo in piena autogestione e rendendo il parco accessibile a tutt*. Qualche scritta sul muro trovata al nostro arrivo o qualche ragazz* seduto sulle gradinate a fumare o bere non hanno mai rappresentato una minaccia per i presenti. Prima e dopo ogni evento ci siamo sempre attivat* per pulire gli spazi usati, perché siamo profondamente convint* che la collettività che vive un posto debba anche prendersene cura, senza deleghe di sorta.
Ieri abbiamo provato a raccontare tutto questo, seriamente preoccupat* da un serie di proposte emerse da una parte dell’assemblea: quelle di chiudere il parco la notte, riempirlo di telecamere e farlo pattugliare dalle forze dell’ordine.
Scriviamo questo comunicato per ribadire quanto già detto ieri in assemblea: non sono chiusure, telecamere e pseudo-ronde a rendere un posto sicuro, ma le persone che lo attraversano e lo vivono ogni giorno. Un parco per essere sicuro deve essere vissuto dalla comunità e tutto questo può avvenire attraverso momenti di incontro, arte, aggregazione e partecipazione attiva alla gestione e alla manutenzione del parco. Come collettivo ci opponiamo a ogni forma di controllo, chiusura e militarizzazione degli spazi pubblici. Per questi motivi ci rifiutiamo di collaborare con determinate organizzazioni politiche e di stampo militaresco che propugnano una visione del mondo fobica e securitaria.
Siamo invece aperti, l’abbiamo detto in assemblea e lo ribadiamo con questo scritto, alla ricerca di forme diverse di collaborazione con tutte quelle organizzazioni e individualità che ieri ci hanno dimostrato solidarietà davanti ad alcuni atteggiamenti autoritari ingiustificabili in un’assemblea popolare.
Un modello di rinascita del parco all’insegna dell’autogestione e dell’azione diretta è possibile e sarebbe, ne siamo sicur*, ben più efficace delle deleghe, petizioni e lamentele indirizzate ad una amministrazione che non se ne occupa o a politicanti di turno in passerella elettorale.
Come collettivo ci opponiamo fermamente all’idea che questo luogo diventi una sorta di bomboniera chiusa e sorvegliata fruibile solo da alcun* cittadin*, ma che continui ad essere sempre di più un luogo di incontro e di cultura, promuovendone la cura attraverso l’incontro tra chi lo ama o chi lo vuole riscoprire.
Non abbiamo bisogno di militari e telecamere ma di rimboccarci le maniche per riprendere in mano dal basso la progettualità degli spazi che viviamo. Senza deleghe e senza fobie securitarie.
L.A. MICCIA

Esplodere il silenzio, innescare l’autogestione.


Alcune immagini delle attività che abbiamo fatto negli ultimi anni al boschetto.

Esplosioni 2019

Esplosioni 2020

Chiacchierata transfemminista proprio sul tema della sicurezza negli spazi pubblici.

DDL ZAN?

Fin dalla nascita del nostro collettivo abbiamo portato avanti momenti di lotta, di informazione e di dibattito sulle rivendicazioni transfemministe e queer. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo perché riteniamo l’oppressione etero-patriarcale un fatto intollerabile che avvelena e annichilisce tuttu noi.

Il transfemminismo queer e intersezionale è parte della nostra identità errante.

Conosciamo bene gli effetti devastanti sui corpi della cultura omo-lesbo-bi-trans-fobica e conosciamo bene i difensori di tale cultura.

Conosciamo i loschi personaggi che si stanno opponendo del tutto pretestuosamente al DDL Zan: i catto-fascisti del movimento pro-life, della cosiddetta “famiglia naturale”, gli anti-abortisti, quellx che considerano la donna madre e custode del focolare domestico, quellx che pensano che la transessualità sia perversione e che l’omosessualità sia un male da curare, anche a suon di botte. Sappiamo chi sono, ci siamo scontrati mille volte con questa immondizia reazionaria e continueremo a farlo.

Conosciamo il mondo che vogliono proteggere, semplicemente perché è proprio quel mondo ciò che più di ogni altra cosa vogliamo abbattere. Abbattere una volta per tutte l’idea che la vita non abbia senso al di fuori della trinità mortifera di Dio-Patria-Famiglia.

Sappiamo benissimo che l’obiettivo della destra cattolica di declassare l’omofobia, la transfobia, la bifobia e la lesbofobia a problemi da non affrontare mai e da invisibilizzare, è funzionale al mantenimento del sistema di oppressione etero-patriarcale, attorno al quale si tutela il privilegio del maschio bianco. Noi ci opponiamo con forza al modello violento della Famiglia tradizionale, quella ingessata nel binarismo di genere e nella sottomissione della femminilità relegata nel corpo della donna biologica.

La lotta contro questi catto-fascisti ci ha negli anni avvicinato a vari movimenti transfemministi e queer non normalizzati e non estetizzati, ci ha spinto a lottare e a dialogare con soggettività che insieme all’etero-patriarcato rifiutano di farsi incorporare in un processo di cambiamento senza una vera traNsformazione sociale.

Tali movimenti hanno elaborato una serie di riflessioni intorno al DDL Zan che crediamo sia importante affrontare in questa piazza.

Il DDL non è partito dall’ascolto attento delle elaborazioni transfemministe e da quelle della comunità LGTBQIPAI+ . Non è altro che un’integrazione della legge Mancino. Tale legge rimane completamente dentro una logica punitiva e repressiva, senza andare a toccare minimamente le condizioni strutturali che rendono possibili la violenza omo-lesbo-bi-trans-fobica quotidiana. Il DDL infatti non prevede alcuna implementazione culturale, come i programmi di educazione alle differenze di genere, alla sessualità e all’affettività. E i 4 milioni di euro destinati dalla legge ai “centri per il sostegno delle vittime di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere” sono assolutamente insufficienti e non sono previsti corsi di formazione per tutto il personale nelle varie istituzioni

Il DDL poi include definizioni su orientamento sessuale, identità di genere, genere, sesso ambigue e spesso discriminatorie ed errate. Definisce le persone trans* con la parola “transessuali”, definizione non rappresentativa della molteplice esperienza trans* ed esclude altre identità (persone asessuali e non binarie) dalla protezione contro le discriminazioni.

Le aggressioni fisiche compiute da singoli individui che questa legge punisce sono solo la punta dell’iceberg; l’omo-trans-lesbo-bi-fobia è un problema strutturale della nostra società ed è principalmente di Stato: comincia nelle famiglie, cresce nelle scuole, e finisce nelle prigioni dove continua a propagarsi.

Per queste ragioni non crediamo che inasprire le pene o riempire le galere sia la soluzione ai nostri problemi. Le minacce di detenzione e le pene esemplari non sono mai reali soluzioni ai problemi sociali. Il sistema punitivo si rivolge troppo facilmente solo alle fasce sociali più svantaggiate. E recludere i corpi continua a essere la soluzione per togliere dalla vista le persone povere, mettere a tacere quelle che dissentono, escludere quelle, a vario titolo, irregolari. Un transfobico in galera non cancella l’omo-lesbo-bi-trans-fobia, un’esperienza dietro le sbarre, la privazione della libertà, non può rendere migliore né la società, né le persone che la sperimentano.

Contrastare la violenza eteropatriarcale è una lotta di tutti i giorni, perché la violenza è quotidiana e strutturale. Rilanciamo quindi e rivendichiamo oggi una battaglia che superi l’approccio legalitario/repressivo e combatta sul piano culturale e politico la violenza etero-patriarcale in tutti i settori della nostra società.

La nostra lotta è appena cominciata. Vogliamo una scuola dove vengano abbattute le barriere di genere, classe, razza, orientamento sessuale. Una scuola che educhi alle differenze di genere – sì, chiamatelo gender se volete: è insegnamento di consapevolezza e libertà, di rispetto di sé e degli altri. Vogliamo educazione sessuale e campagne di prevenzione e riduzione della violenza omo-lesbo-bi-trans-fobica. Vogliamo accesso anonimo e gratuito a screening e terapie per tuttx. Vogliamo centri antiviolenza autonomi e gestiti dal basso, con personale formato. Vogliamo consultori liberi dalle ingerenze della chiesa e ospedali liberi dagli obiettori, vogliamo case-famiglia e centri di rifugio per chi nella famiglia trova solo violenza e oppressione. Vogliamo frocizzare gli spazi cittadini e renderli sicuri con la nostra presenza, i nostri attraversamenti, i nostri corpi. La violenza è di Stato ed è strutturale. La soluzione non può che venire dal basso, attraverso l’azione diretta, l’auto-organizzazione e una traNsformazione radicale che coinvolga tutti, tutte e tuttu.

Per approfondimenti si veda:

https://filosottile.noblogs.org/post/2021/04/14/autorganizzazione-e-disobbedienza-contro-la-violenza-di-stato/

https://marciona.noblogs.org/post/2020/07/14/contro-la-violenza-molto-piu-di-una-legge/

 

LABORATORIO AUTOGESTITO LA MICCIA

NOME DI BATTAGLIA “NEDO”

In via Mazzini n. 6, proprio qui vicino, visse gli ultimi anni della sua vita il partigiano Giacomo Tartaglino, nome di battaglia “Nedo”. Nato nel 1878 a Mongardino fu in gioventù ferroviere e sindacalista. Allo scoppio del Primo conflitto mondiale aiutò centinaia di disertori a espatriare in Svizzera, per sfuggire a una carneficina che in nome della patria farà milioni di morti, feriti, mutilati e sfollati. Disertore egli stesso, colpito da una condanna a morte per tale attività di espatrio clandestino, scappò in Germania. Qui prese parte al tentativo rivoluzionario dei Consigli di Baviera, represso nel sangue dai corpi franchi. Ritornato ad Asti visse braccato dal regime fascista, più volte arrestato, perquisito e fermato. Una sorveglianza estenuante e continua che lo costrinse a cambiare moltissime volte domicilio e lavoro. Nel 1944, a 65 anni,Tartaglino si unisce ai partigiani garibaldini. A luglio è nel Canavese, in montagna con la brigata “Saverio Papandrea”. Nel settembre passa alla 100°, distaccamento Corio e nell’inverno prende parte ai violenti combattimenti che si svolgono contro le forze rastrellanti nazi-fasciste in Val Tiglione. Nel dopoguerra aderirà alla neonata Federazione Anarchica Italiana (FAI), facendosi promotore del Gruppo Anarchico “Pietro Ferrero” con sede proprio qui, presso la sua abitzione. Morirà nel 1961 ad Asti, in condizioni di vita modestissime, senza mai rinnegare i propri ideali libertari e svolgendo fino alla fine il mestiere di calzolaio.

LA MEMORIA DEI PARTIGIANI VIVE NELLE LOTTE

Nel ricordare la storia di Tartaglino vogliamo ricordare le vite di quanti/e non si limitarono alla sola lotta contro il fascismo. Le vite di tutt* quell* che si impegnarono in un progetto rivoluzionario di trasformazione radicale della società. Vogliamo qui oggi ricordare un antifascismo che non si sentiva esaurito negli esiti della democrazia e della Costituzione. Un antifascismo che voleva edificare un mondo nuovo di uomini e donne liber*, senza padroni. Senza più sfruttati nè sfruttatori, senza oppressioni di genere, senza confini. Quest* antifascist* sapevano bene che il fascismo non sarebbe finito con la Liberazione ed oggi la loro lezione appare quanto mai attuale. Oggi che assistiamo al diffondersi di ideologie sfacciatamente razziste, autoritarie, escludenti, populiste. Ideologie che spesso incrociano teorie del complotto non molto diverse da quelle antisemite che circolavano durante il fascismo. Mentre i politicanti soffiano sul fuoco della guera tra poveri, sempre più ci si affida ad irrazionali spiegazioni di un mondo che non si riesce più a comprendere e di fronte al quale ci si sente impotenti. Frustrati da condizioni di vita sempre più degradanti, diventa facile credere che ci sia una grande cospirazione agita da forze oscure e che la colpa sia degli ultimi arrivati, dei diversi e di chi è costretto a vivere nell’emarginazione. In tale quadro ogni forma di solidarietà tra oppressi viene spazzata via e l’unica cosa che rimane è l’essere italiani, bianchi, cristiani, legati alle tradizioni, ognuno al proprio posto, strettamente ancorato al ruolo assegnato: gli uomini machi e violenti, le donne remissive e in casa a pulire e badare ai figli. Un sistema oppressivo e mortifero che sta riacquistando fascino. Un sistema basato sul razzismo, l’identità nazionale, la cultura machista e il tradizionalismo. Insomma tutti gli ingredienti che scatenarono il nazi-fascismo ieri e che continuano a minacciare le nostre vite oggi. Questa minaccia, di fronte al netto peggioramento delle condizioni di vita dovute alla pandemia, è oggi più che mai seria. Perchè da tutto questo all’invocazione di un uomo forte, di un duce che sappia sistemare tutto il passo è breve. Partigiani come Tartaglino sapevano che per sconfiggere il fascismo una volta per tutte non sarebbe stato sufficiente invocare gli articoli di una Costituzione. Per abbattere il fascismo è necessario lottare quotidianamente contro le condizioni che lo rafforzano e che lo rendono possibile: le ingiustizie economiche generate dal sistema economico, i confini, la cultura patriarcale di preti e politicanti, il nazionalismo che ci vorrebbe tutt* “pronti alla morte”, il militarismo che riempie di divise le nostre strade, il complottismo che ci fa sentire pedine impotenti. La memoria dei partigiani come Tartaglino non è dunque nelle stantie celebrazioni istituzionali ma soffia forte nelle nostre lotte: a fianco dei lavoratori che si auto-organizzano contro lo sfruttamento imposto dai padroni, contro il razzismo e le frontiere, a fianco delle identità erranti e non conformi, insieme ai movimenti LGBTQI+ e transfemministi, contro tutti gli eserciti e a difesa dei territori, contro progetti criminali come il TAV. I nostri nemici non agiscono attraverso oscuri e inafferrabili complotti. Oggi come allora sono sempre gli stessi: sono i padroni che ci sfruttano in nome del profitto. Sono i governi che impongono opere devastanti e inutili con la militarizzazione, drenando soldi pubblici, distruggendo la sanità e gestendo criminalmente la pandemia. Contro di loro, oggi come allora, abbiamo le stesse armi: la solidarietà, il mutuo appoggio, l’auto-organizzazione, l’azione diretta.

 

Cacciamo i catto-fascisti dagli ospedali!

intervento della miccia al presidio di ieri

Il 2 ottobre 2020 la Regione Piemonte, presieduta dal forzista Cirio, ha emanato una circolare che limita l’uso del farmaco RU 486 per l’interruzione volontaria di gravidanza alle sole strutture ospedaliere, in opposizione a quanto stabilito in agosto dal ministero della sanità che ne aveva ampliato l’uso anche nei consultori. Un divieto esplicito che si accompagna, nella stessa circolare, ad un’iniziativa grottesca: l’apertura degli ospedali alle associazioni antiabortiste pro-life.
Oggi la regione dà seguito alla circolare inviando alle Asl le indicazioni per avviare collaborazioni con queste associazioni per la “tutela della vita fin dal concepimento”. Conosciamo bene questi gruppi e la loro narrazione, li abbiamo visti a Verona con i loro feti di plastica, li conosciamo  e rifiutiamo la loro interferenza sulle decisioni che riguardano solo noi e i nostri corpi. Ci propongono la loro retorica bugiarda e ipocrita “in difesa della vita” mentre lavorano alacremente proprio per negarci la vita e la libertà, cercando di privare ciascuna di noi di quella che deve essere una libera scelta. 
Condannare le donne alla maternità come obbligo è omicida perchè significa ricacciarci tra le grinfie dell’aborto clandestino. E questo proprio grazie ai cattofascisti del movimento pro vita che, ben lungi dal difendere la vita, hanno sulla coscienza le esistenze di migliaia di donne massacrate dall’aborto clandestino, dai decotti al prezzemolo, dalle grucce, dalla povertà, dall’impossibilità di scegliere. 
Questo vile attacco alla libertà delle donne è possibile proprio nel nome della legge 194 del 1978, che stabilisce le procedure legali per l’aborto. Una  usata come grimaldello per rendere più difficile quando non impossibile la scelta delle donne.
In Piemonte la 194 viene infatti usata come giustificazione per limitare l’aborto farmacologico e per dare spazio ai catto-fascisti: nella circolare emanata dalla giunta Cirio, le misure restrittive adottate sono giustificate proprio come attuazione della 194.
Sembra una contraddizione, ma è quotidianità. A fronte di tutto questo possiamo bene vedere le leggi per quello che sono: rappresentazioni ritualizzate dei rapporti di forza presenti all’interno della società. Lettere morte di movimenti vivi che hanno cercato e cercano tuttora di realizzare un’emancipazione totale della società e non solo piccoli miglioramenti parziali. Lotte che avendo incominiato a gustare un po’ di libertà erano intenzionate a prendersela tutta. Tante leggi, a posteriori definite “conquiste”, non sono state infatti altro che limitate concessioni a movimenti che miravano a ben di più. 
Oggi i percorsi della libertà femminile sono sotto il costante attacco di chi vorrebbe riproporre una visione patriarcale dei generi e di chi individua nella maternità un destino da cui le donne non devono sottrarsi, tornando docili nella gabbia familiare. La negazione delle identità non conformi e l’asservimento delle donne libere sono due facce della stessa medaglia, indispensabili alla riaffermazione della famiglia come nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini. La famiglia è la fortezza intorno alla quale i raggruppamenti identitari e sovranisti pretendono di ri-fondare un ordine politico e sociale gerarchico ed escludente, fondato sul privilegio e sull’oppressione di chi ne è escluso.
La giunta Cirio mira a cancellare i percorsi della libertà femminile, ponendo le donne sotto tutela: ci descrivono come soggetti deboli, incapaci di decidere per noi stesse e quindi bisognose di una guida che ci faccia desistere dall’insano proposito di essere libere.
Questo sostegno, nel caso della Regione Piemonte, arriverebbe dalle associazioni pro-vita. Enti che agiscono da decenni come soggetti privati ma oggi entrano nelle strutture sanitarie con il finanziamento della Regione e in osservanza alla legge 194.
“Il presidente della Regione e gli assessori alla Sanità e agli Affari legali precisano che tali indirizzi rispondono alla volontà, unanimemente condivisa dalla Giunta regionale e dai presidenti dei gruppi consiliari di maggioranza, di garantire il pieno rispetto delle disposizioni della legge 194 poste a garanzia della piena libertà di scelta della donna se interrompere volontariamente la gravidanza o se proseguirla”.
Nella neolingua del governo regionale piemontese, per difendere “la libertà di scelta della donna”, si finanziano gli sportelli delle associazioni antiabortiste.
Il vero nodo è la legge 194, la legge che, dopo la depenalizzazione dell’aborto, pose seri limiti alla libertà di scelta delle donne. La 194 è una gabbia normativa, che i nemici della libertà femminile hanno imparato ad usare.
Due anni fa l’Avvenire indicava nell’obiezione la strada maestra per rendere impossibile scegliere di abortire. In Piemonte oltre il 60% dei medici si dichiara obiettore. In molte zone d’Italia si arriva al 100%. Questa strategia è comune e diffusa in tutti gli ambienti reazionari come il modo più funzionale per ostacolare libertà come l’aborto o la transizione di genere: non negarne legalmente l’esistenza, almeno non ancora, ma renderle di fatto difficili da esercitare e quanto più possibile impraticabili.
Non vogliamo limitare la libertà dei medici di rifiutare di agire contro la propria coscienza, d’altra parte esistono decine di specializzazioni in cui un medico può formarsi senza mai sfiorare un aborto. Ma pretendiamo che si diano le condizioni perché nessuno limiti la libertà di scelta delle donne, perché nessuno metta a repentaglio le nostre vite, perché nessuno possa ricattarci, umiliarci, piegarci. 
Eravamo fuorilegge, siamo state messe sotto l’ombrello della legge: è tempo che si lotti per essere davvero libere. Senza legge.
Basta allo stigma e al ricatto sui nostri corpi, basta ai sensi di colpa patriarcali  con cui le associazioni pro-vita vogliono manipolarci. Cacciamo i catto-fascisti dagli ospedali! 
Lottiamo per spazzare via il patriarcato dalle nostre vite! 
Fuori preti e governi dalle nostre mutande!
Laboratorio Autogestito la Miccia
Abort the pope – grafica di postromanticqueerwave.noblogs.org

Aggiornamenti dalla spesa sospesa

Lo scorso maggio nel pieno della pandemia ci stavamo interrogando su cosa avremmo potuto fare per aiutare chi era più vulnerabile, così è nata come iniziativa solidale la nostra spesa sospesa. Ormai è da quasi un anno che la spesa Sospesa della Miccia è attiva, e il lockdown non è ancora finito.
Abbiamo sperimentato diversi modi di portare avanti l’iniziativa: ad ora la stiamo lasciando fuori dalla sede per due giorni alla settimana – il mercoledì e il venerdì, dalle 9-10 del mattino fino al tardo pomeriggio. Abbiamo notato che l’iniziativa è di aiuto perchè molte persone prendono generi alimentari e di igiene dalla spesa, e tante lasciano qualcosa in cambio o portano approvvigionamenti: pasta, riso, cibo in scatola, olio, caffè, sapone, giochi e fumetti per bambinɜ…
Sono piccole cose che diamo per scontate ma che non lo sono altrettanto per troppe persone, invisibili a chi ha il privilegio di un lavoro o di un documento.
La vita si fa sempre più dura per chi ha perso il lavoro o per chi riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena facendo lavoretti in nero, e da qualche settimana non c’è più molto: alcuni giorni la ritiriamo completamente vuota. Spesso, individualmente, diamo un contributo; tuttavia intendiamo questa esperienza non come un’elemosina da parte nostra – concetto che ci è del tutto estraneo – ma come un piccolo seme che possa germogliare portando alla condivisione di pratiche solidali tra persone anche sconosciute. Possiamo dire che il messaggio è passato perchè sono molti i contributi che notiamo, così come il senso di reciprocità di chi prende qualcosa di cui ha bisogno lasciando qualcos’altro in cambio, piccoli gesti che dimostrano molto. Per questo non riempiamo la spesa continuamente.
Tutti i mercoledì e venerdì la spesa sarà come sempre fuori dallo spazio della Miccia, come un piccolo approdo per chi cerca qualcosa o per chi ha qualcosa da dare. Il motto che accompagna la spesa è: se puoi metti, se non puoi prendi. Aggiungiamo: se ti va, replica l’iniziativa, crea altri punti di condivisione, non delegare – neanche a noi – quello che potresti fare con le tue mani.

CHIACCHIERATA TRANSFEMMINISTA – Verso l’8 Marzo

DOMENICA 28 FEBBRAIO @ BOSCHETTO DEI PARTIGIANI – ASTI. In caso di pioggia EX FERRIERE.

Troviamoci per confrontarci e parlare di cultura dello stupro, di patriarcato, di come ci mette a rischio e di come possiamo reagire quotidianamente, personalmente, senza delegare.

CULTURA DELLO STUPRO, VIOLENZA E COME POSSIAMO USCIRNE

Ogmi donna, persona trans e LGBTQI+ ha vissuto sulla propria pelle la cultura dello stupro con cui si manifesta il sistema di potere che chiamiamo patriarcato (o etero-cis-patriarcato) e come agisce nel quotidiano: fischi, scherni, insulti, palpate. Le aggressioni, le botte, gli stupri. La morte, per femminicidio o per suicidio in seguito alla diffusione di video intimi senza consenso o a violenze fisiche. Anche qui è capitato: nel 2017 Lydia, una giovane ragazza trans si è tolta la vita in seguito ad una violenza sessuale in un parco cittadino.
Le telecamere c’erano, ma non è cambiato nulla. L’aggressore è stato condannato, ma ha davvero capito ciò che ha fatto?
Il patriarcato è quello che ci ha insegnato a rassegnarci e sentirci vittime impotenti, a mimetizzarci e nasconderci, a non frequentare la città buia, a non bere troppo. 
Andiamo in bagno in branco e camminiamo veloci fingendo di telefonare. Impariamo a rispondere “sono fidanzata” ad una avance insistente invece di rispondere “vattene affanculo”, come se ciò che ci legittima a rifiutare quella proposta fosse solo che siamo già di qualcuno. Impariamo a cercare protezione nella famiglia, questa istituzione onnipresente che costituisce proprio la dimensione minima e necessaria del patriarcato. 
Infatti non per caso è proprio in famiglia che avvengono la maggior parte degli abusi, quando ci prendiamo troppe libertà o facciamo coming out. Troppo spesso è il partner che ci mena e ci violenta, ci manipola, ci priva della nostra indipendenza e se proviamo a lasciarlo è anche peggio. Non è difficile ritrovarsi in una quotidianità fatta di abuso in cui diventa normale essere sminuite, picchiate, minacciate e chiuse a chiave in casa, fino a doversi calare dal balcone per andare a lavoro spaccandosi i talloni, come è successo proprio qui ad Asti ad una donna che ha subito per anni violenze da parte del partner. 
Il patriarcato è quando denunciamo, quando ci facciamo refertare in pronto soccorso, e impariamo poi che non esiste misura cautelare in grado di proteggerci, e quando infine dobbiamo andare in tribunale ci troviamo non a testimoniare le violenze subite, ma a dover difendere la nostra condotta.
Sì siamo sopravvissute, ma come eravamo vestite?
Abbiamo bevuto? Lo abbiamo invitato a casa? Lo abbiamo provocato? Abbiamo forse causato quel raptus in qualche modo? Forse era solo folle d’amore. Lo abbiamo tradito o volevamo lasciarlo? Una narrazione tossica in cui i media sguazzano senza ritegno.
Ci insegnano ad affidarci alle forze dell’ordine. Quando però sono i carabinieri a violentare, in tribunale le vittime si sentono chiedere se provano una segreta attrazione per gli uomini in divisa e se indossavano le mutande.
Ad Asti solo nel 2019 ci sono stati più di 160 accessi di donne al pronto soccorso per violenza domestica. I numeri sono in crescita ma sappiamo che è solo la punta dell’iceberg, perché prima di arrivare al pronto soccorso sono decine e decine gli episodi che vengono nascosti. Durante il 2020 la pandemia non ha cambiato nulla nella sostanza: pur in un anno così anomalo più di 60 donne hanno dovuto rivolgersi al pronto soccorso. Nonostante il calo drastico degli omicidi in generale, le donne vittima di femminicidio sono passate dal 30% al 60% del totale, 15 solo in piemonte. Contemporaneamente perdiamo indipendenza economica ad un ritmo vertiginoso: di 101 mila posti di lavoro persi nell’ultimo anno, 99 mila erano lavoratrici donne.
Non ci servono a niente strade piene di lampioni, telecamere e divise, perché la causa di tutta questa violenza non è nel buio dei marciapiedi e nella carenza di forze dell’ordine, è in un sistema che ci definisce come proprietà di altri, lavoro domestico e corpi gratis a disposizione di un sistema di potere patriarcale. 
Per questo non vogliamo che della nostra sicurezza si prenda cura lo stato, con il suo apparato di forze dell’ordine, galere e confini, dispositivi schierati contro le nostre libertà.
Nel nostro quotidiano possiamo smettere di lasciarci definire solo come vittime e agire. Possiamo partire dal riconoscimento degli abusi e delle forme in cui la violenza si manifesta ben prima di diventare eclatante, dalla creazione di reti solidali, centri di ascolto, possiamo sperimentare pratiche collettive e individuali di resistenza a queste dinamiche. 
Vogliamo essere libere, liberi e liberu e abbiamo ormai imparato che l’unica via di fuga da questo sistema è nelle nostre mani. Per la nostra sicurezza dobbiamo distruggere la cultura dello stupro e il patriarcato.

In questa chiacchierata vorremmo partire da regole condivise da tuttx sullo spazio di parola, per cercare di autogestirci nel modo più inclusivo possibile. Queste sono le nostre proposte, se ne avete altre comunicatecele ????
Ne discuteremo brevemente prima di iniziare per assicurarci che siano condivise e rispettose di tutte le persone che parteciperanno:
♡ Nel rispetto di tutte le individualità, non diamo per scontato il genere e il pronome da assegnare alle altre persone
♡ Cerchiamo di gestire i tempi nel rispetto di tuttx soprattutto se siamo in tantə.
♡ Cerchiamo di non interrompere e non parlarci addosso.
♡ Tuttx devono poter parlare se lo desiderano, ci sarà quindi una moderatrice che darà parola a chi la chiede.
♡ Ricordiamo che questa è una chiacchierata inclusiva.
♡ Toccheremo certamente argomenti che ci accendono, ma cerchiamo di non dirigere rabbia e indignazione verso lx altrx partecipanti alla chiacchierata.
Aperto a persone di ogni genere, orientamento, età, forma e colore. 
Ricordiamo che L.A. Miccia è un collettivo libero, antifascista e transfemminista: fasc*, mach*, bull*, omofob*, transfobic* e razzist* non sono benvenut*.

Quale memoria?

Il calendario di Stato è pieno di commemorazioni. Giorni in cui veniamo sollecitati per decreto regio a sforzare una memoria sempre più artificiale su avvenimenti a noi talvolta sconosciuti. I nostri occhi devono chiudersi su quanto mortifica quotidianamente le nostre vite, per spalancarsi soltanto su ciò che un tempo travolse le esistenze di altri.

Manifestazioni, funzioni, celebrazioni, ci fanno ripercorrere a distanza di sicurezza quanto ci è stato insegnato sugli orrori del passato per farci sentire al riparo da ciò che sperimentiamo sulla nostra pelle nel presente.

Ogni 27 gennaio veniamo invitati a commemorare le vittime dell’Olocausto, i milioni di ebrei e non ebrei soppressi nei lager nazisti. Affinché simili tragedie non debbano ripetersi mai più, le autorità elargiscono onoreficenze ai sopravvissuti o ai loro parenti, inaugurano lapidi a perenne monito, finanziano Treni della Memoria che conducono i ragazzi a visitare il lager di Auschwitz. Tutte nobili iniziative. Tuttavia, prima di arrivare a Cracovia, tutta questa memoria farà tappa anche alla Risiera di San Sabba (Trieste) — campo di sterminio dotato di forno crematorio —, a Gonars (Udine), a Renicci di Anghiari (Arezzo), a Chiesanuova (Padova), a Monito (Treviso), a Fraschette di Alatri (Frosinone), a Colfiorito (Foligno), a Cairo Montenotte (Savona) e in tutti i paesi dove all’epoca sorsero campi di concentramento italiani?

No, la memoria istituzionale è selettiva. Ricorda volentieri gli orrori perpetrati dallo Stato tedesco, ma solo per far meglio dimenticare quelli commessi dallo Stato italiano.

Sottolineando la responsabilità degli altri si cerca di legittimare e rendere plausibile una propria irresponsabilità in quei fatti lontani, laddove dovrebbe essere noto che il governo fascista italiano fu il principale alleato del governo nazista tedesco nonché, in un certo senso, l’ispiratore.

Ma c’è di peggio. La messa in mostra degli orrori di ieri serve soprattutto a coprire gli orrori di oggi, offuscando l’indissolubile legame che li unisce. La rituale esibizione del Male assoluto nazista è necessaria, va ripetuta di anno in anno, perché serve a rendere più accettabile il Male relativo democratico. Così tutti s’indignano per il clima di paura che regnava all’epoca, ma quanti invocano quel sistema di videosorveglianza moderno che tratta chiunque come un nemico da controllare? Si piangono gli ebrei rinchiusi nei lager di ieri con l’accusa di aver infestato l’Europa, mentre si tace sugli immigrati clandestini che vengono rinchiusi sotto i nostri occhi nei lager di oggi (i Centri di permanenza per il rimpatrio) con l’accusa di infestare l’Europa.

Si rimane sgomenti di fronte all’ideologia nazi-fascista che faceva degli ebrei dei parassiti da eliminare, una malattia contagiosa da estirpare ma si trovano del tutto accettabili gli insulti e le minacce indirizzate sistematicamente alla comunità rom. Un disprezzo che spesso raggiunge l’invocazione di una vera e propria pulizia etnica.

Ci si interroga su come fu possibile discriminare, perseguitatare e ghettizzare una larga fetta di popolazione ma si reputa del tutto normale invocare lo sgombero dei campi rom, senza spendere un euro per trovare soluzioni di vita dignitose, senza prevedere l’assegnazione di case, senza fare letteralmente nulla, se non respingere in un isolamento ancora più degradante chi, come tutti, vorrebbe solo trovare una casa e una vita migliore.

Furono 500.000, forse più, i rom, sinti e camminanti sterminati nei lager. Altre centinaia di migliaia furono perseguitati incarcerati, deportati, le famiglie sciolte, le comunità disperse, allo scopo dichiarato di sradicare il Wandertrieb, l’“istinto nomade”, identificato dall’eugenetica paranoide fascista con il disordine, la trasgressione, la commistione del sangue e la degradazione del costume. Eppure la loro è una memoria drammaticamente taciuta. E la ragione è semplice: studiare le dinamiche che resero possibile il loro sterminio è qualcosa di troppo scomodo perchè troppo drammaticamente attuale. Oggi come allora la guerra fra i poveri si alimenta degli stessi stereotipi, dello stesso odio per chi è diverso, per chi sta peggio. E questo lo vediamo con estrema chiarezza anche qui ad Asti con quanto sta succedendo rispetto al campo di via Guerra.

Il primo dell’anno Ariudin, un ragazzo di 13 anni, è morto in un tragico incidente all’interno del campo. La stampa locale, all’indomani dell’accadduto, ha cinicamente titolato: “Asti, al pronto soccorso si contano i danni della disperazione dei parenti del 13enne ucciso dal petardo”. L’articolo ha scatenato sui social una bufera di insulti razzisti e di indignazione, non certo per la drammatica scomparsa del ragazzo ma per alcuni – limitatissimi – danni avvenuti all’ospedale. Insomma l’interruttore di una porta automatica e una barella valgono di più della vita di una persona.

Il terribile avvenimento ha dato un’accellerata alle procedure di sgombero del campo di via Guerra e recentemente sono uscite le proposte della giunta comunale, in accordo con il questore: fare da intermediari con mediatori immobiliari per far acquistare alle famiglie del campo una casa e individuare un’area – lontana da tutto e da tutti – dove piazzare tende per le famiglie non in grado di acquistare un immobile.
Il tutto senza impiegare alcuna risorsa finanziaria nè mettere a disposizione edilizia popolare.

Come se le famiglie del campo di via Guerra volessero a tutti i costi rimanere lì e non se ne fossero andate prima unicamente perchè sprovviste dei saggi consigli dell’amministrazione, non certo perchè impossibilitate all’acquisto di una casa. Con tali premesse l’ipotesi della costituzione di un nuovo campo “temporaneo” appare non come un’ipotesi ma come una certezza assoluta che farà del nuovo sito, non ancora individuato, solamente un altro ghetto, ancora più isolato.

Quella del Comune non è che l’ennesima operazione demagogica per guadagnare un po’ di consensi a destra, sulle spalle di famiglie che hanno i nostri stessi bisogni e che subiscono in forma estrema la nostra stessa precarietà. E il tutto in una città piena di case sfitte e immobili vuoti abbandonati al degrado e alla speculazione edilizia.

Quello del Comune è un gioco facile che affonda le proprie radici su di una ideologia razzista che da sempre individua nei rom, sinti e camminanti degli “asociali” e dei “criminali per natura”, da isolare e ghettizzare.

Da queste discriminazioni e ghettizzazioni ai pogrom il passo è molto breve. E’ quanto successe a Torino nel dicembre del 2011 quando un gruppo di ultras e neofascisti portò a termine un attacco incendiario al campo nomadi della Continassa, nel quartiere popolare delle Vallette. La storia avrebbe dell’incredibile se non si cementasse su secoli di antiziganismo: una ragazza racconta un bugia, uno stupro mai avvenuto, punta il dito su due rom, i rom che vivono in baracche fatiscenti tra le rovine della cascina della Continassa. Il campo viene dato alle fiamme.
Oggi, giorno della Memoria, non dovremmo limitarci a guardare in modo distaccato agli orrori del passato. Oggi dovremmo ragionare sul significato della storia, sulla sua utilità e se essa debba essere una mera attività consolatoria o uno strumento efficace per saper leggere anche il presente e agire di conseguenza. Se vogliamo che la memoria non sia un esercizio vano dobbiamo capire una volta per tutte che gli unici veri parassiti sono i politicanti di ogni colore e di ogni tempo, che lucrano sulle vite delle persone per metterle le une contro le altre, per allargare il consenso verso leggi sempre più liberticide e autoritarie.
L’unica vera malattia da estirpare è il nazionalismo, un cancro che avvelena la società nascondendoci i nostri veri nemici: i padroni che ci sfruttano, le istituzioni criminali e incompetenti che ci governano.

I nostri nemici non abitano nei campi nomadi ma siedono sulle poltrone del Comune, della Regione, del Parlamento, dei Consigli di amministrazione. Sono loro che ci sfruttano, che ci sfrattano, che ci riducono alla fame, che tagliano su tutti i servizi fondamentali e poi ci dicono che “siamo tutti italiani” e che la colpa è degli stranieri, degli zingari. Oggi più che mai è necessario non cadere in questa trappola. Non bisogna lasciare nessuno spazio a chi specula sulle nostre vite e su quelle di chi sta peggio di noi. Se le loro armi sono l’ignoranza e l’odio, le nostre sono la solidarietà, l’auto-organizzazione, lo studio, l’azione diretta. Contro ogni nazionalismo. Contro ogni razzismo. Perchè ogni bandiera è imbrattata di sangue, ogni inno nazionale copre urla e lamenti e fino a quando non si deciderà di farla finita con i governi, gli orrori della storia non faranno che ripetersi.

Riferimenti:
A forza di essere vento. Lo sterminio nazista degli Zingari, A rivista anarchica (DVD)
L. Guenter, La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, 2002

NON È ANDATO TUTTO BENE

Siamo a dicembre. Sono passati 8 mesi dall’inizio della pandemia. Che cosa è stato fatto per porre rimedio alle scelte criminali dei governi degli ultimi 30 anni?
In 10 anni sono stati tagliati 43.000 posti di lavoro nella sanità. In italia i posti letto sono calati del 30% tra il 2000 e il 2017. Stando all’ultima classifica stilata da ItaliaOggi e Università la Sapienza, Asti si trova al 103° posto su 107 città italiane per quel che riguarda il parametro della Salute: un risultato disastroso in un quadro nazionale già di per sè molto preoccupante.
Con la scusa dello “spreco di risorse” si sono chiusi i piccoli ospedali sparsi sul territorio che in piena pandemia sarebbero serviti come filtri per le strutture ospedaliere più grandi. Esemplare in questo senso il caso dei “vecchi” ospedali di Alba e Bra, smantellati in favore della nuova unica struttura di Verduno. Un enorme affare per i privati e la curia, un grave danno alla salute dei cittadini che si vedono privati in questo modo di due importantissimi presidi sanitari territoriali. 
A tali scelte locali si aggiungono le decisioni nazionali in materia di spesa pubblica. Il governo in questo periodo d’emergenza invece di stanziare i fondi necessari per un’assunzione significativa di medici, infermieri, assistenti sanitari, per aprire nuovi reparti per la prevenzione e la cura del territorio, ha continuato a investire grandissime quantità di denaro in spese militari. Nel 2020 sono stati stanziati circa 26,3 miliardi nell’ambito della Difesa, un miliardo in più rispetto al 2019. A tali cifre si aggiungeranno gli stanziamenti provenienti dal Recovery Fund: dei 209 miliardi destinati all’Italia ben 30 miliardi andranno nell’acquisto di applicazioni militari, caccia bombardieri, elicotteri e altri strumenti di morte. 
E per non farci mancare niente ecco che nel pacchetto di aiuti europei salta fuori anche la linea TAV Torino-Lione: un’opera inutile, costosissima, dannosa per l’ambiente e per la salute,fortemente contrastata dalla popolazione residente. L’ultimo tentativo, in ordine temporale, di far confluire soldi nelle tasche di Confindustria, che da tempo fa pressioni per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali inutili.
A tale riguardo il confronto con altri paesi europei è impietoso. Solo 9 miliardi in Italia sono destinati alla sanità, contro i 35 miliardi della Germania, mentre sempre nel nostro Paese ben 27 miliardi sono destinati alle infrastrutture.
Ecco come spenderemo gli aiuti che dovrebbero servire per la sanità, la scuola e i trasporti pubblici davvero utili.
Ecco qual è l’agenda dei governi: tagli alla sanità, investimenti nell’industria bellica e palate di soldi in grandi opere inutili. La nostra salute per questi criminali non conta nulla. 
Di fronte a tutto questo cambiare rotta è più che mai urgente. Non per tornare alla normalità di prima ma per un mondo radicalmente diverso dove al centro stiano le vite delle persone e non le merci, gli interessi di tutt* e non di poch*. Cambiare le cose è possibile ma solo partendo dal basso, solo attraverso l’azione diretta, il mutuo appoggio e la solidarietà.
Non deleghiamo le nostre lotte all’ennesimo politico di turno, agiamo in prima persona! Auto-organizziamoci! Per un mondo dove la salute non sia un privilegio ma un bene di tutt*. Per una società senza più guerre nè eserciti! La possibilità che “vada tutto bene” dipende da noi.

*Volantinaggio e info-point Asti 19 Dicembre 2020*

Chiacchierata Transfemminista – Corpi e stereotipi nella società dell’immagine

25 ottobre – 16:30 presso Circolo Arci Sciallo, Parco Monterainero, Asti

Strizzare i rotolini, contare le calorie, misurare i centimetri, strappare i peli, farli crescere, colorare la pelle e i capelli, scegliere tra un’infinità di vestiti, e poi soprattutto come camminare, come sedersi, come rispondere o non rispondere ai messaggi, come guardare o non guardare le persone. 
Sono norme sociali che conosciamo così bene da seguirle senza neanche pensarci, consuetudini che investono ogni aspetto della nostra vita in modo diverso a seconda del genere, del colore della pelle, della taglia e dell’età. Queste regole non scritte ci vengono proposte fin dalla più tenera età già in ambito famigliare, e ossessivamente ripetute a scuola, nella società, e dai media con i loro innumerevoli tentacoli fatti di comunicazioni stereotipate e pubblicità martellanti. 
Modelli e stereotipi binari a cui dobbiamo adeguarci e per cui certi corpi saranno sempre non conformi e impossibili da accettare: persone con disabilità, persone queer e trans, persone grasse. Il prezzo da pagare è lo stigma, l’isolamento e una maggiore vulnerabilità rispetto al bullismo, alla violenza e alle aggressioni sessuali.
Naturalmente non c’è nulla di male nel decidere di aderire ad un certo modello estetico, che sia o meno uno stereotipo, ma vogliamo avere la libertà di scegliere liberamente e per questo è necessario comprendere l’origine di questi stereotipi di genere, maschili e femminili, e dello stigma che investe chi vi si allontana per qualsiasi ragione.
Capire ad esempio perché il modello estetico più idealizzato e commercializzato per una donna rispecchia sempre il suo supposto ruolo sessuale o riproduttivo, una bellezza ideale che ben si rispecchia nell’orrido modo di dire patriarcale e sessista “madonna o puttana”. Anche gli uomini hanno modelli di riferimento altrettanto stereotipati e distorti: un ideale che punta ad una virilità tossica, insensibile, priva di ogni vulnerabilità ed empatia: “l’uomo che non deve chiedere mai”, e l’altrettanto patriarcale galanteria iper protettiva che con i suoi gesti premurosi confina la donna in una condizione di debolezza e dipendenza.
Attraversare questa giungla estetica di simboli, norme e segni è pericoloso, umiliante, a volte mortale. Avere una mappa e buona compagnia può fare la differenza. Per questo vogliamo parlarne insieme!
Portiamo le nostre esperienze, le letture che ci appassionano, le idee per costruire una cultura diversa.

In questa chiacchierata vorremmo partire da regole condivise da tuttx sullo spazio di parola, per cercare di autogestirci nel modo più inclusivo possibile. Queste sono le nostre proposte, se ne avete altre comunicatecele ????
Ne discuteremo brevemente prima di iniziare per assicurarci che siano condivise e rispettose di tutte le persone che parteciperanno:
♡ Nel rispetto di tutte le individualità, non diamo per scontato il genere e il pronome da assegnare alle altre persone
♡ Cerchiamo di gestire i tempi nel rispetto di tuttx soprattutto se siamo in tantə.
♡ Cerchiamo di non interrompere e non parlarci addosso.
♡ Tuttx devono poter parlare se lo desiderano, ci sarà quindi una moderatrice che darà parola a chi la chiede.
♡ Ricordiamo che questa è una chiacchierata inclusiva.
♡ Toccheremo certamente argomenti che ci accendono, ma cerchiamo di non dirigere rabbia e indignazione verso lx altrx partecipanti alla chiacchierata.
Aperto a persone di ogni genere, orientamento, età, forma e colore. 
Ricordiamo che L.A. Miccia è uno spazio libero, antifascista e transfemminista: fasc*, mach*, bull*, omofob*, transfobic* e razzist* non sono benvenut*.